Coccodrilli dal cilindro: un nome strano per una formula semplice. Ogni giorno, fino al 21 agosto, il sito de La Stampa pubblica un racconto breve affiancato da un’illustrazione. Così breve che si legge in tre minuti.

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Aprirono il cinema Nostalgia nel febbraio del 1983. Avevo quindici anni e nel mio paese non si era mai visto niente del genere. Prima, per andare al cinema in città, scroccavo un passaggio sul motorino a Bianca, che aveva tre anni più di me e il monociglio.

Durante il viaggio mi stringevo forte alla sua schiena. A lei faceva piacere portare un maschio dietro, anche se più piccolo, perché diceva che “gli uomini veri sono quelli che riescono ad accettare che una donna sappia fare qualcosa più di loro”. Non ci credevo, però le avevo detto che sì, aveva ragione.

«Non verremo mai più in città, quando faranno il cinema da noi», mi promise.

Il giorno dell’inaugurazione andai a casa sua. Abitava in una villetta a schiera, di quelle che avevano costruito negli anni ‘60.

«Bianca,» le dissi emozionato al citofono, «vieni al cinema?».

Lei era apparsa dietro le tende bianche che davano sulla strada, mi aveva fatto un cenno.

«Fa un freddo cane lì fuori, bambolo!», disse facendomi entrare. Mi chiamava sempre bambolo, perché ero piccolo e avevo grandi occhi blu, come Cicciobello. La prima cosa che notai era che non aveva più il monociglio e che le labbra erano truccate. Era bellissima.

«Dai andiamo, comincia tra dieci minuti, se camminiamo in fretta ce la facciamo» dissi. Quasi saltavo.

Lei si sedette sulla poltrona: «Non lo so, non è il caso».

Fremevo sulla porta con ancora il cappello calato sulle orecchie, sbattevo le mani dentro ai guanti per riscaldarmi.

Me ne sfilai uno, e tirai fuori i biglietti dalla tasca: «Li ho comprati la settimana scorsa. Centrali, quasi in fondo».

«Con chi ci dovevi andare?» rispose lei.

«Di che parli?».

«Non fare il cretino, chi è che ti ha tirato pacco all’ultimo?».

Io la fissavo: «Nessuno!», le risposi «Dai, dobbiamo andare!».

«Sai cosa ho sentito?».

«Eh, dimmelo».

«Che quando ti hanno chiesto se stavamo insieme tu hai risposto: “fa schifo al cazzo”».

Rimasi in silenzio, mortificato.

«Vattene».

«Ma ho comprato i biglietti!»

Lei si era alzata di scatto e aveva aperto la porta, fuori il cielo era bianco e basso, sembrava mi stesse per crollare addosso.

«Non dicevo sul serio,» mormorai.

Percorsi il vialetto lentamente, poi mi voltai a guardarla, stava ancora sulla porta. L’espressione era tesa, le braccia conserte: «E comunque ci vado con il mio ragazzo,» disse e sbattè la porta.

Un quarto d’ora più tardi ero seduto al centro della sala, per la prima proiezione del paese. Tenevo gli occhi sullo schermo e pensavo a chi potesse essere il suo ragazzo. Il Ranocchia, quello della chiesa? Carlo, detto Frusta per tutte le seghe che si faceva? Nessuno di quelli normali le girava attorno.

Sarà un grassone, pensai tra me e me. Sarà un cretino. La prenderà in giro.

Anche io lo avevo fatto.

Mi alzai e uscii dal cinema mentre Tom Cruise fissava la camera con gli occhiali da sole e una sigaretta in bocca, corsi lungo la strada tenendo sotto il braccio il bomberino. Non incontrai nessuno, erano tutti in sala. Tranne me e Bianca.

Quando arrivai davanti a casa sua lei stava uscendo. Indossava un cappotto rosa chiaro, lungo, e si era truccata le palpebre.

La raggiunsi sul vialetto e mi fermai davanti a lei, il cuore mi batteva così forte da sfondarmi il petto: «Bianca, ho detto quelle cose perché», le strinsi una mano tra le mie «perché ti amo. Mi vergognavo».

Lei rimase immobile, le ciglia spesse, la frangia pettinata.

«Ma dove vai?» le chiesi, «e tu, tu mi ami?».

«Ti vergognavi perché sono brutta?».

«Ma che dici, non lo sei! Neanche con il monociglio».

Lei fece un passo indietro, come se le avessi tirato uno schiaffo.

«Vai a prendere in giro qualcun altro. Sei cattivo, bambolo».

Una macchina aveva accostato di fronte a casa, un ragazzo che sembrava Tom Cruise la salutava. «Dove vai?», le chiesi.

Lei mi superò e aprì la portiera della macchina «Al cinema,» disse «in città».

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Silvia Cannarsa ama pedalare a Torino la mattina presto. Parla con i merli e con i gatti, ma la maggior parte delle volte con le persone.

Matteo Baracco, illustratore, viaggiatore nell’iperspazio. Attraverso le immagini trasmette i suoi pensieri. Qui trovate i suoi lavori.

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2. Lui non vi conosce, ma sa quello che vi piace

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4. La goccia e la piscina

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