MONDO

“Feeding the tide”: come alimentare la marea femminista

Il collettivo International Women Strike NYC incontra Ni Una Menos Argentina. Note a margine da una prospettiva situata

Trascorrere dei periodi di vita all’estero è sempre un po’ una sfida. Ci si sente pervasi da una duplice tensione che proverei a sintetizzare così: da un lato c’è l’eccitazione ed il desiderio di scoprire cose che non si conoscono, fare esperienze nuove, arricchirsi e contaminarsi con tutto ciò che è differente e distante dalla propria quotidianità; dall’altro però c’è quell’iniziale senso di spaesamento che porta a ricercare contesti in grado di riconsegnare un “non so che” di familiare ed intimo.

Con l’intento di far fronte ad entrambe queste spinte, nel corso dei mesi trascorsi qui a New York, è stato quasi istintivo per me cercare di attraversare degli spazi di discussione ed organizzazione femministi, provando ad incrociare analisi e pratiche che questo incredibile anno di piazze ed assemblee stracolme di donne – ma non solo – ci ha consegnato. Ho così avuto modo di entrare in contatto con il collettivo IWS – International Women Strike New York, una sperimentazione nuova in città che si è assunta con determinazione la sfida di costruire dal basso la data di sciopero globale delle donne dell’8 Marzo, definendo una piattaforma chiara e distinta da quella legata alla Women’s March, per radicalità dei contenuti e capacità di connessione con le altre esperienze internazionali. Una risposta, dunque, ai tentativi portati avanti dal liberal feminism made in U.S. di azzerare le differenze e di rilegare la straordinaria espressione di potenza della Marcia del 21 Gennaio alla sola e cieca opposizione a Trump.

Proprio la scorsa Domenica, all’interno del MayDay Space di Brooklyn, il collettivo IWS ha organizzato un momento di discussione e confronto con Veronica Gago, Marta Dillon, giornalista di Pagina12, Cecilia Palmeiro, e Natalia Fontana del sindacato degli assistenti di volo, tutte del collettivo Ni Una Menos Argentina; evento al quale ho avuto modo di partecipare e di cui ho immediatamente sentito la necessità di scrivere, non solo per riordinare e rielaborare la straordinaria quantità di stimoli con cui sono tornata a casa una volta concluso ma anche e soprattutto per provare a riconsegnare (sebbene parzialmente) la profonda ricchezza, la vitalità e la nuova consapevolezza scaturite dalle circa 4 ore di dibattito. Nel cercare di rispondere a queste intenzioni, non ho potuto fare a meno di assumere una prospettiva situata – in termini di metodo e di postura – per restituire quanto visto, ascoltato e provato nel corso dell’iniziativa a “partire da me”.

Tanti sono stati i nodi affrontati ed alcuni in particolare hanno catturato la mia attenzione e stimolato una serie di riflessioni che vale la pena condividere. In primo luogo credo sia fondamentale valorizzare la composizione assolutamente eterogenea che ha caratterizzato l’incontro; c’erano ovviamente le compagne Argentine ma è innanzitutto il collettivo IWS che, riflettendo la natura cosmopolita, interculturale e fortemente latino americana di New York, ad essere composto da donne messicane, colombiane, brasiliane, cilene. Da queste provenienze disparate sono emersi però con estrema forza molteplici punti di connessione che, rimbalzando tra i vari interventi, hanno reso tangibile la natura profondamente globale dell’ emergente movimento femminista.

Nel ricostruire la genealogia di Ni Una Menos in Argentina, è stata sottolineata più volte l’importanza della capacità creativa che quest’incredibile esperienza ha apportato nel ripensare il linguaggio, le pratiche ed il metodo politico. Molta enfasi è stata infatti posta sulla ricerca processuale di un linguaggio poetico-politico che, a partire da una prospettiva femminista, è stato in grado di costruire una vera e propria contronarrazione da opporre a quella mainstream. Un linguaggio che è divenuto immediatamente strumento collettivo, capace di ribaltare il ruolo della donna da vittima a protagonista della sua vita e del suo tempo. Una lingua de las locas, ossia di tutte quelle soggettività etichettate come “pazze” (donne, queer, trans, lesbiche, gay) che attraverso questo esercizio di creatività si sono riappropriate delle parole e le hanno connesse alla materialità dei corpi, i loro corpi! In tal senso anche il termine di mujer/donna è stato risignificato a partire da una concezione molecolare di femminilità e di femminile. Una categoria, dunque, che non si rispecchia più nella mera appartenenza ad uno stesso sesso ma che è divenuta spazio di riconoscimento teorico/materiale per soggettività differenti.

Questa creatività, dunque, non solo ha avuto la capacità di reinventare le forme del linguaggio ma ha inoltre reso possibili nuove sperimentazioni basate sulle contaminazioni. È con questa tensione che le compagne argentine hanno sottolineato quanto per loro sia stato importante riprendere dalle “sorelle italiane” il termine Marea, cogliendo tutte le sfumature che noi stesse, nei giorni precedenti e successivi al 26 Novembre, avevamo immaginato nello scegliere di utilizzare questa parola. Un termine capace di restituire non solo la potenza collettiva del fluire unico dei corpi ma anche la non appropriabilità di uno spazio, impossibile da definire in termini identitari. Ecco … sentire risuonare e condividere queste parole così ricche di significato politico ed emotivo in una stanza piena di donne provenienti da tanti paesi del Mondo ma con cui non avevo mai parlato prima è stato come un abbaglio. Come sentirsi nel posto giusto al momento giusto ed in totale connessione con chi era attorno a me!

Altra questione che ha sicuramente prodotto un interessante confronto è stata quella dello sciopero dell’8 Marzo e di tutto ciò che la costruzione di questa incredibile giornata di lotta ha comportato. In Argentina come in Italia, ma anche qui a New York, la scelta dello strumento dello sciopero ha comportato il necessario ripensamento e la vera e propria riappropriazione di tale pratica, imponendo una riflessione complessiva sulle odierne forme del lavoro. Le compagne ci hanno raccontato di come la preparazione all’8 Marzo abbia trasformato le assemblee in veri e propri laboratori permanenti in cui rileggere le dinamiche di sfruttamento e di estrazione di valore a partire da una prospettiva femminista, riconoscendo i confini ormai indefiniti che separano il lavoro produttivo da quello riproduttivo. Fondamentale è stata, per l’esperienza Argentina, la partecipazione di moltissime donne appartenenti ai sindacati. Una partecipazione che ha permesso, come ci ha raccontato la stessa Natalia, di aprire forti contraddizioni all’interno di contesti, come quelli sindacali, da sempre dominati da logiche maschili, e che ha prodotto un ribaltamento dei rapporti di forza tale da permettere la convocazione di un reale sciopero generale. In Italia i tentativi e le energie protese per la convocazione di uno sciopero che si estendesse a più di una o due ore; la partecipazione e l’adesione di molte sigle sindacali di base (possibili grazie agli sforzi di tantissime iscritte); la convocazione di una giornata di sciopero in circa 50 paesi del Mondo; non sono stati sufficienti a spostare di un centimetro la posizione della CGIL che con una paternalista e miope pacca sulle spalle, ha preferito tirare dritto per la sua strada senza uscita!

Altro elemento che ha caratterizzato la giornata dell’8 Marzo in tutta l’America Latina è stato quello della critica e della radicale opposizione allo sfruttamento della terra; fenomeno che è stato rinominato dalle stesse donne che vivono quelle specifiche zone minacciate dall’agro business “femminicidio della Terra”. Qualcosa che in termini molto simili sta accadendo anche nella comunità Sioux di Standing Rock, che si batte contro il Dakota Access Pipeline; e che anche in Italia conosciamo bene, dalla resistenza decennale in Val di Susa alla lotta per gli ulivi delle zone del Salento.

E allora, a conclusione di un’avvincente discussione, emerge con forza come questa dimensione globale non viva nella mera evocazione ma nella concreta intersezione di una comune analisi della violenta offensiva neoliberale e patriarcale, nonché nelle rivendicazioni e nelle pratiche di auto-difesa e resistenza che, da un lato all’altro dell’Oceano, sanno davvero dotarsi dello stesso potente linguaggio: quello femminista!

La domanda che quindi ci siamo reciprocamente rivolte è la seguente: come si alimenta la marea? Come si valorizza questa dimensione internazionale che ci permette di connettere e di far incrociare la radicalità delle istanze di lotta con la portata di massa che questo movimento ha saputo esprimere? Rispondere a queste domande, che divengono immediatamente necessità, non è compito facile né tantomeno possibile nel corso di una singola iniziativa di confronto. Possiamo però partire da ciò che abbiamo già messo in campo, ossia dalla capacità di contrapporre collettivamente alla “pratica dell’evento” una “pratica del processo”. Come suggeriva Silvia Federici, tra le organizzatrici dell’iniziativa, dobbiamo iniziare ad immaginare la costruzione di una rete attraverso la quale far circolare e connettere le varie rivendicazioni e le molteplici forme di resistenza, per far si che questa creatività collettiva possa superare e vincere l’isolamento ed il senso di impotenza e solitudine che l’ordine neoliberista vorrebbe imporre alle nostre esistenze. Siamo noi, con la nostra forza e con la nostra determinazione, che siamo chiamate ad assumerci la responsabilità di evitare che questo incredibile spazio che abbiamo aperto assieme si richiuda. Nutrire ed alimentare la marea significa forse, allora, avere la capacità di agire a partire dalla propria specificità ma senza mai smettere di tendere lo sguardo oltre i confini nazionali di ogni singola esperienza, provando a costruire in termini globali la nostra controffensiva.

E così, alla fine del dibattito, mi sento addosso una sensazione familiare; un senso di profonda intimità che a prima vista sembra un controsenso – visto che conosco solo 3 delle 50 persone che mi sono attorno. Ma questa, penso, è la naturale conseguenza di riconoscere in altri sguardi gli stessi pensieri, desideri ed emozioni che, negli ambiti e nei contesti collettivi, diventano realtà tangibile e possibilità concreta. Quella che ci ha portato e che ci porterà nel futuro a gridare e a mettere ancora in pratica il NI UNA MENOS! VIVAS NOS QUEREMOS!