Scegli di capire.

Gedi Smile Abbonati
Inserti
Ancora su HuffPost
Guest
Tutte le sezioni

GEDI Digital S.r.l. - Via Ernesto Lugaro 15, 10126 Torino - Partita IVA 06979891006

Cultura

Marco Belinelli: "Ringrazio chi mi dava per fallito nell'NBA. Mi ha dato la forza di insistere. Ora posso dire 'Per favore, tappatevi la bocca'"

Benoit Tessier / Reuters
Benoit Tessier / Reuters 

Arrivato in America, credevano che non ce l'avrebbe fatta: "Sentivo attorno a me la sfiducia dell'allenatore e dei compagni di squadra. Per quanto m'impegnassi, non avevo nemmeno la possibilità di dimostrare se e quanto valevo. Mi percepivo fuori dal gruppo ed emarginato. C'erano giornalisti italiani che mi chiamavano e mi dicevano: 'Forse non sei ancora pronto per la Nba'. Leggevo giudizi come: 'È troppo magro', 'non ha la testa', 'gli manca qualcosa', 'non fa per lui'. E furono quelle sentenze sputate in faccia che mi diedero la forza di continuare a lavorar duro per poter un giorno vincere e guadagnarmi il diritto di rispondere loro: 'Ora, per favore, tappatevi la bocca'".

Passarono sette anni prima che Marco Belinelli potesse mettere a tacere le voci del malaugurio vincendo con i San Antonio Spurs il campionato più importante della pallacanestro mondiale, la Nba, diventando il primo italiano a riuscirci il 15 giungo del 2014: "Non ho mai pianto così tanto come quella notte a San Antonio, quella notte in cui mi sentii liberato dal peso delle aspettative deluse, dalla rabbia che avevo ingoiato per anni, dalla sensazione di essere stato solo e messo in un angolo. Mi voltai indietro e guardai da dove ero arrivato".

E cosa vide?

San Giovanni in Persiceto, il posto in cui sono cresciuto, ventotto mila abitanti in provincia di Bologna. Mi passarono davanti i campetti dove imparai a prenderle e a darle. Le prime battaglie, gli insulti: era un basket molto fisico quello che giocavamo, nessuno fischiava mai dei falli. Lì imparai le astuzie del mestiere, come rubare la palla da dietro e infrangere una regola senza farmi scoprire. E mi rafforzai anche nel carattere, impedendo a gente più grande e grossa di me di passarmi sopra. Tutte cose che nel ring della Nba, dove il gioco è duro come in strada, possono tornarti utili.

Perché la pallacanestro?

Mio fratello Enrico giocava a basket e mi fece guardare le prime partite in televisione. Da quel momento, non desiderai fare altro. Quando a scuola le maestre chiedevano "cosa vuoi fare da grande?" c'era chi rispondeva: "Il carabiniere", "il calciatore", "il pilota". Io dicevo: "Il giocatore della Nba".

Chi amava?

Guardavo le videocassette di Michael Jordan, Larry Bird, Shaquille O'Neal, Magic Johnson. Mi ispiravano i loro corpi, i loro gesti, lo stupore che suscitavano nel pubblico. Mi proiettavo dall'altra parte dell'Oceano e sognavo di giocare in quei campi. A volte immaginavo di essere lì e trasmettevo nella mia testa la telecronaca del mio esordio in America.

Invece giocava nella provincia italiana.

A Bologna il basket era, ed è, una cosa seria. Quando i miei compagni di classe andavano a far la partitella a calcio, io dicevo "no, grazie" e correvo al campetto di pallacanestro: nessuno però mi guardava in maniera strana, come se avessi dei gusti bizzarri.

Il suo corpo la aiutò?

Sono alto un metro e novantasei centimetri e già nelle foto della prima comunione si vede questo ragazzino che svetta su tutti gli altri, gracile gracile. L'altezza mi servì per iniziare, ma quando entrai nel professionismo dovetti lavorare moltissimo sulla mia muscolatura.

Con chi lo fece?

Cominciai nella Virtus di Bologna e ci rimasi sino a quando fallì. Poi passai alla Fortitudo, la squadra rivale della città. Vinsi il campionato, entrai nella nazionale e arrivai ai Mondiali in Giappone.

Dove si trovò di fronte alla squadra dei suoi campioni, gli Stati Uniti.

Prima di quella partita ero diviso in due: da una parte c'era la paura di trovarmi di fronte a Le Bron James, Chris Paul, Kirk Hinrich, Joe Johnson, campioni che avevo visto e ammirato per anni in televisione; dall'altra c'era la voglia di misurarmi con loro, mettermi alla prova fisicamente, capire quanto potevo reggere.

Coma andò?

Perdemmo giocando una buona partita. Realizzai venticinque punti e mi accorsi che qualcosa stava accadendo quando cominciarono a guardarmi con altri occhi. Per i primi due quarti mi avevano marcato con sufficienza. Poi, mi si attaccarono addosso.

Anche fuori dal campo la notarono.

Fu grazie a quella partita che mi chiamarono nella Nba e, dopo averla fantasticata centinaia e centinaia di volte, finalmente arrivò l'America. Non l'avevo mai visitata, nemmeno da turista. E fu un bel salto arrivare da San Giovanni in Persiceto a San Francisco.

Soffrì?

All'inizio, le cose andarono bene. Segnai trentasette punti nella mia prima partita nella Summer League, il secondo miglior risultato nella storia del precampionato Nba. Don Nelson, l'allenatore dei Golden State Warriors, dichiarò che puntava su di me. Mi allenavo nel quintetto base. Dovevo essere titolare. Solo che quando iniziò il campionato giocai pochissimo. Avevo la sensazione di lavorare, lavorare, lavorare, e non essere nemmeno preso in considerazione.

Quanto durò?

Due anni a San Francisco, uno a Toronto: cominciai a rinascere a New Orleans con gli Hornets. Avvertii la possibilità di esprimere quello che sapevo fare, e lo feci. Passai ai Chicago Bulls e poi ai San Antonio Spurs, con i quali vinsi il campionato.

Cosa la aiutò in quei momenti?

Fin da piccolo, i miei allenatori hanno riconosciuto in me una caratteristica: la capacità di apprendere dagli errori. Sbagliavo, me lo facevano notare e all'azione successiva avevo già imparato la lezione. Lo sbaglio è un maestro eccellente. Ho sempre cercato di ascoltare quello che aveva da dirmi su me stesso.

C'era anche la pressione, però.

Dicevano che non sarei stato in grado. Leggevo su internet giudizi che mi davano per spacciato. A sentirli, ero finito. E li ringrazio, ringrazio veramente tutti quelli che hanno annunciato il mio fallimento. Mi hanno dato la forza di insistere. Mi sono allenato pensando al giorno in cui li avrei guardati in faccia e avrei detto loro "Dicevate?".

Molto americano come atteggiamento.

Quest'anno andrò a giocare ad Atlanta e sarà la mia ottava squadra e città americana: sono stato ad est e a ovest, a nord e a sud, gli Stati Uniti sono una nazione formidabile, assomiglia davvero al posto che vediamo nei film. Vai in un centro commerciale e c'è qualcuno che è pagato per farti riempire la busta della tua spesa. Guadagna poco, sì: ma un'opportunità per entrare nel mondo del lavoro gli viene data. Poi, magari ne avrà un'altra e un'altra ancora, e un modo per realizzarsi forse lo troverà.

E l'Italia invece?

A volte mi manca così tanto che non so cosa darei per poter andare in una bar e ordinare un cappuccino e un cornetto. Mi manca parlare la lingua. Mi manca la meraviglia delle nostre città. Però ho ventinove anni e so che ci sono ragazzi della mia generazione che si laureano con cento dieci e lode e nessuno dà loro una possibilità. Da questo punto di vista, qualcosa dall'America dovremmo impararla.

Gli Stati Uniti hanno anche un lato feroce, però.

Quest'anno sono andato a giocare a Charlotte, dove erano in corso delle grandi manifestazioni perché un poliziotto bianco aveva ucciso un nero. La maggior parte delle persone con cui gioco sono nere, ma lì la discriminazione non l'ho mai avvertita. Però, negli ultimi anni, questi episodi sembrano più numerosi. Ed è terribile. Siamo tutti stati creati uguali e nessuno dovrebbe sentirsi inferiore su questa terra.

In cosa l'America non l'ha cambiata?

Amo vestire con un certo gusto e cerco con molto scrupolo le cose che indosso. Con i primi guadagni, misi su una piccola collezione di orologi Audemars Piguet. L'idea di segnare il tempo, poterlo misurare, mi dà la sensazione – o, forse, l'illusione – di poterlo tenere sotto controllo.

Ora è con la nazionale, tra poco comincerà l'Europeo, anche se se ne parla poco.

A volte, l'Italia dovrebbe rendersi conto che non esiste solo il calcio. Capisco che sia lo sport più seguito. Ma sa quanti campioni ci sono negli altri sport che solo pochi conoscono?

I commenti dei lettori
Suggerisci una correzione