Milano, 14 ottobre 2014 - 07:43

Il genocidio silenzioso dei Guaraní derubati della terra ancestrale

Parla Eliseu Lopes, leader e portavoce dei 47mila Kaiowá, il più numeroso dei tre gruppi Guaraní

di Alessandra Muglia

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Un tempo i Guaraní del Brasile occupavano un territorio di foreste e pianure grande come l’Italia: cacciavano e coltivavano manioca e granoturco. Nell’ultimo secolo sono stati allontanati dalle loro terre per far spazio a grandi allevamenti e a grandi piantagioni , soprattutto di canna da zucchero (che alimentano la fiorente industria nazionale dei biocarburanti). Oggi vivono confinati in riserve affollate o accampati ai margini delle strade. Vivono di stenti, sradicati ed emarginati. “Per noi la terra era tutto. Hanno devastato tutto quello che era nostro. Il governo parla di sviluppo economico ma sono menzogne, questo tipo di sviluppo porta sofferenza e morte – denuncia Eliseu Lopes, leader e portavoce dei 47mila Guaraní-Kaiowá, il più numeroso dei tre gruppi Guaranì.

SILENZIOSO GENOCIDIO Lopes, a Milano per una conferenza di Survival International (www.survival.it), alla casa dei Diritti definisce i contorni di un “genocidio silenzioso”. I nativi chiedono la restituzione della terra ancestrale secondo quanto previsto dalla Costituzione brasiliana. Nel 2007 è stata decisa la mappatura e demarcazione di 36 aree guaraní. Ma da allora nemmeno una è stata assegnata, costringendo gli indios a sopportare malnutrizione, malattia, violenza e uno dei tassi di suicidio più alti al mondo: 1 ogni 7 giorni tra le tribù dei Guaraní-Kaiowá nello Stato di Mato Grosso do Sul, al confine con il Paraguay. Un tasso 34 volte superiore alla media nazionale.

VIOLENZE E IMPUNITA’
Vista la lentezza con cui procedono le autorità, molte comunità negli ultimi anni hanno deciso di rioccupare le loro terre da sole: è la cosiddetta retomada. Alle rioccupazioni di terre da parte dei nativi spesso seguono minacce, violenze e sgomberi da parte di sicari assoldati da proprietari terrieri e allevatori. Si calcola una media di 1 omicidio ogni 12 giorni. Tanti i leader nativi uccisi per aver guidato queste battaglie. Come Marcos Veron al cui assassinio si è ispirato il film di Marco Bechis “Birdswatchers. La terra degli uomini rossi”, andato anche a Venezia (2008). Poi l’anno scorso è stato ammazzato anche il protagonista del film, il leader Ambrosio Vilhalva che Lopes conosceva bene. “L’impunità di fatto di cui godono quanti attaccano e uccidono i membri della comunità alimentano continue violenze” dice Lopes, lui stesso minacciato di morte. “Sappiamo che il governo non demarcherà la nostra terra se non saremo noi stessi a occuparla, con Lula e Dilma non si è risolto niente, chiunque vinca le elezioni per noi non cambierà niente, la nostra lotta per la terra sarà la stessa”.

L’IMPEGNO DI NEVES
Poco importa ai nativi più avveduti che Aecio Neves, il rivale della “presidenta” Dilma Rousseff al ballottaggio del 26 ottobre, abbia accettato di impegnarsi sulla restituzione delle terre indigene per avere l’appoggio dell’ecologista Marina Silva, arrivata terza al primo turno e ago della bilancia del secondo. “La loro sfiducia è comprensibile. Il governo brasiliano ha le mani legate sul problema delle terre dei nativi a causa del potere che ha acquisito negli ultimi anni il settore agroalimentare, attraverso il partito ruralista che può far convergere 200 deputati in Parlamento” spiega al Corriere Spensy Pimentel, docente dell’Universidade Federal da Integração Latino-Americana a Brasilia. Per lui la soluzione è sì politica ma in senso più ampio: “Occorre una profonda riforma politica nel Paese che porti ad avere più equilibrio nella rappresentanza parlamentare”. Anche Carlo Zacquini, missionario laico da circa 50 anni con gli indios in Amazzonia, insiste sui limiti del capo di Stato brasiliano: “Il presidente qui ha reali poteri, sì, ma controllati da uno schema di parlamentari che rappresentano molto più il grande capitale”.

COMPLICITA’
La scrittrice brasiliana Eliane Brum punta il dito sulle responsabilità collettive : “Siamo tutti complici del genocidio, chi per azione, chi per inerzia/omissione - dice al Corriere -. Il tipo di sviluppo che si basa sulla trasformazione della foresta in piantagioni di soia e canna da zucchero, che dà la priorità a dighe come quella di Belo Monte in Amazzonia, si basa su una visione del mondo del XX secolo che considera la natura come un serbatoio infinito. I programmi sociali per abbattere la povertà in Brasile sono stati portati avanti depredando la natura e non puntando a una più equa distribuzione delle ricchezze, con politiche che riducano le disuguaglianze sociali”. Il grido d’allarme (e dolore) lanciato da Lopes si rivolge ai tribunali internazionali (che possono obbligare il governo brasiliano a rispondere delle negligenze che portano alla decimazione dei popoli indigeni) e all’opinione pubblica: all’inizio dell’anno, dopo una campagna di Survival, le autorità brasiliane hanno lanciato l’Operazione Awá e hanno sfrattato i taglialegna illegali che operavano nel territorio degli Awá. Survival ha anche persuaso la Shell a non comprare canna da zucchero prodotta nelle terre sottratte ai Guaraní e sollecitato il colosso americano Bunge che si è impegnato a non rinnovare il contratto alla scadenza. La battaglia continua.

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