Milano, 22 marzo 2017 - 23:32

I continui salvataggi con quelle navi
vicino alle coste libiche: i sospetti delle Procure

Gli interventi privati aumentano mentre calano le richieste di aiuti alle Capitanerie

Una foto di archivio di migranti (Ansa) Una foto di archivio di migranti (Ansa)
shadow

In almeno quattro occasioni, nel 2016, le navi affittate dalle organizzazioni non governative per l’assistenza ai rifugiati sono entrate nelle acque libiche per raccogliere i migranti appena salpati dalle coste africane e portarli in Italia. Il 5 novembre scorso 149 persone sono state fatte salire, dopo aver percorso appena 11 miglia, sulla Phoenix battente bandiera del Belize e presa a nolo da due privati cittadini residenti a Malta; ma non le hanno portate a Malta, bensì a Catania. In precedenza, il 25 giugno, un’altra nave panamense era arrivata fino a 7 miglia dalla Libia e aveva preso a bordo 390 profughi per portarli a Cagliari. Altri due recuperi simili sono stati effettuati tra giugno e luglio, ancora dalla Phoenix e dalla Topaz-Responder, 52 metri di imbarcazione registrata alle Isole Marshall, in Oceania: 241 migranti scaricati tra Reggio Calabria e Ragusa.

Gli sconfinamenti

La Phoenix e la Topaz sono due navi citate dal procuratore di Catania nell’audizione in Parlamento sul fenomeno delle Ong che mandano i loro mezzi in prossimità della Libia, ma accertamenti sono in corso anche da parte della Procura di Palermo e di altre città; alla ricerca di eventuali connessioni tra gli equipaggi e i trafficanti di uomini che lavorano in Libia. Perché la conseguenza di questi avvicinamenti, oltre all’aumento generale degli sbarchi, è un flusso di partenze che non è rallentato durante i mesi invernali, come avveniva in passato. A parte gli sconfinamenti nelle acque libiche, la gran parte degli interventi «privati» di salvataggio avviene nella cosiddetta fascia contigua, tra 12 e 22 miglia di distanza dalla costa; questo consente alle organizzazioni criminali di far partire barche e gommoni carichi di uomini, donne e bambini anche con il mare alto, nella consapevolezza che dopo un tratto relativamente breve ci sono le navi delle Ong pronte ad accoglierli. Nel 2016 erano 14, mentre a fine 2015 erano solo tre, e da gennaio a novembre hanno effettuato 422 interventi portando in salvo 44.072 persone; una situazione nuova, che ha contribuito al forte incremento di arrivi dalla Libia: 26.557 a ottobre 2016 rispetto agli 7.914 di ottobre 2015, e 12.332 a novembre (l’anno precedente erano stati 2.870).

Possibili complicità

Gli investigatori hanno già raccolto qualche indizio su possibili complicità tra chi fa partire i migranti e chi li raccoglie. L’aumento degli interventi delle navi non governative, che nella seconda metà del 2016 ha raggiunto punte del 40 sul totale dei salvataggi, è coinciso con la drastica diminuzione, nello stesso periodo, delle tradizionali segnalazioni con telefoni satellitari dai barconi al Comando generale delle capitanerie di porto. Più interventi privati, insomma, a fronte di meno richieste di aiuto all’autorità centrale di soccorso. Il sospetto è che gli Sos dei naufraghi possano arrivare direttamente alle navi noleggiate dalle Ong; oppure che gli stessi scafisti conoscano le rotte da seguire per incontrare le imbarcazioni private; o sistemi di controllo da parte delle navi che perlustrano il mare davanti alla Libia per intercettare i barconi.

Immigrati reticenti

Anche le dichiarazioni dei passeggeri, che solitamente danno un contributo importante alle indagini e all’individuazione degli scafisti, in alcuni di questi sbarchi sono state più reticenti, con una minore disponibilità a fornire informazioni sul viaggio e le modalità di soccorso. E quanto riferito dagli equipaggi delle navi, personale straniero non collegato alle organizzazioni che affittano i mezzi, quasi mai risulta utile a ricostruire i fatti. Anzi, a volte c’è il dubbio di depistaggi, come quando hanno cercato di far passare come minorenni anche migranti «palesemente adulti». In alcuni casi si è accertato che mentre i profughi venivano trasferiti dalle barche partite dalla Libia alle navi delle Ong, gli scafisti avevano un atteggiamento molto più arrogante e sbrigativo di quando si trovano davanti ai mezzi della Guardia costiera o della Marina militare; a volte si sono preoccupati perfino di recuperare i motori fuoribordo e i salvagente, con l’evidente scopo di poterli riutilizzare in altre operazioni. Si tratta di elementi che lasciano immaginare ipotetiche collusione fra i trafficanti e i soccorritori privati.

Le testimonianze

Agli atti delle indagini giudiziarie c’è pure la testimonianza di un siriano sbarcato a novembre, che ha raccontato il viaggio dal suo Paese all’Italia attraverso la Libia, con una traversata pagata più di 6 mila euro. Il mercante che l’ha fatto salire sulla piccola imbarcazione di legno scortata alla partenza da «uomini libici armati» gli aveva garantito che dopo poco lui e gli altri trenta passeggeri di varie nazionalità avrebbero trovato una nave che li avrebbe recuperati. Come poi è effettivamente avvenuto. Agli investigatori italiani che gli hanno mostrato le fotografie di alcuni presunti trafficanti, il profugo ha indicato il libico che lui aveva pagato, e attraverso il controllo di contatti sono emersi rapporti di quel personaggio con almeno una persona che in Italia risulta aver collaborato ad alcune operazioni di soccorso e con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT