In almeno quattro occasioni, nel 2016, le navi affittate dalle organizzazioni non governative per l’assistenza ai rifugiati sono entrate nelle acque libiche per raccogliere i migranti appena salpati dalle coste africane e portarli in Italia. Il 5 novembre scorso 149 persone sono state fatte salire, dopo aver percorso appena 11 miglia, sulla Phoenix battente bandiera del Belize e presa a nolo da due privati cittadini residenti a Malta; ma non le hanno portate a Malta, bensì a Catania. In precedenza, il 25 giugno, un’altra nave panamense era arrivata fino a 7 miglia dalla Libia e aveva preso a bordo 390 profughi per portarli a Cagliari. Altri due recuperi simili sono stati effettuati tra giugno e luglio, ancora dalla Phoenix e dalla Topaz-Responder, 52 metri di imbarcazione registrata alle Isole Marshall, in Oceania: 241 migranti scaricati tra Reggio Calabria e Ragusa.
Gli sconfinamenti
La Phoenix e la Topaz sono due navi citate dal procuratore di Catania nell’audizione in Parlamento sul fenomeno delle Ong che mandano i loro mezzi in prossimità della Libia, ma accertamenti sono in corso anche da parte della Procura di Palermo e di altre città; alla ricerca di eventuali connessioni tra gli equipaggi e i trafficanti di uomini che lavorano in Libia. Perché la conseguenza di questi avvicinamenti, oltre all’aumento generale degli sbarchi, è un flusso di partenze che non è rallentato durante i mesi invernali, come avveniva in passato. A parte gli sconfinamenti nelle acque libiche, la gran parte degli interventi «privati» di salvataggio avviene nella cosiddetta fascia contigua, tra 12 e 22 miglia di distanza dalla costa; questo consente alle organizzazioni criminali di far partire barche e gommoni carichi di uomini, donne e bambini anche con il mare alto, nella consapevolezza che dopo un tratto relativamente breve ci sono le navi delle Ong pronte ad accoglierli. Nel 2016 erano 14, mentre a fine 2015 erano solo tre, e da gennaio a novembre hanno effettuato 422 interventi portando in salvo 44.072 persone; una situazione nuova, che ha contribuito al forte incremento di arrivi dalla Libia: 26.557 a ottobre 2016 rispetto agli 7.914 di ottobre 2015, e 12.332 a novembre (l’anno precedente erano stati 2.870).
Possibili complicità
Gli investigatori hanno già raccolto qualche indizio su possibili complicità tra chi fa partire i migranti e chi li raccoglie. L’aumento degli interventi delle navi non governative, che nella seconda metà del 2016 ha raggiunto punte del 40 sul totale dei salvataggi, è coinciso con la drastica diminuzione, nello stesso periodo, delle tradizionali segnalazioni con telefoni satellitari dai barconi al Comando generale delle capitanerie di porto. Più interventi privati, insomma, a fronte di meno richieste di aiuto all’autorità centrale di soccorso. Il sospetto è che gli Sos dei naufraghi possano arrivare direttamente alle navi noleggiate dalle Ong; oppure che gli stessi scafisti conoscano le rotte da seguire per incontrare le imbarcazioni private; o sistemi di controllo da parte delle navi che perlustrano il mare davanti alla Libia per intercettare i barconi.
Immigrati reticenti
Anche le dichiarazioni dei passeggeri, che solitamente danno un contributo importante alle indagini e all’individuazione degli scafisti, in alcuni di questi sbarchi sono state più reticenti, con una minore disponibilità a fornire informazioni sul viaggio e le modalità di soccorso. E quanto riferito dagli equipaggi delle navi, personale straniero non collegato alle organizzazioni che affittano i mezzi, quasi mai risulta utile a ricostruire i fatti. Anzi, a volte c’è il dubbio di depistaggi, come quando hanno cercato di far passare come minorenni anche migranti «palesemente adulti». In alcuni casi si è accertato che mentre i profughi venivano trasferiti dalle barche partite dalla Libia alle navi delle Ong, gli scafisti avevano un atteggiamento molto più arrogante e sbrigativo di quando si trovano davanti ai mezzi della Guardia costiera o della Marina militare; a volte si sono preoccupati perfino di recuperare i motori fuoribordo e i salvagente, con l’evidente scopo di poterli riutilizzare in altre operazioni. Si tratta di elementi che lasciano immaginare ipotetiche collusione fra i trafficanti e i soccorritori privati.
Le testimonianze
Agli atti delle indagini giudiziarie c’è pure la testimonianza di un siriano sbarcato a novembre, che ha raccontato il viaggio dal suo Paese all’Italia attraverso la Libia, con una traversata pagata più di 6 mila euro. Il mercante che l’ha fatto salire sulla piccola imbarcazione di legno scortata alla partenza da «uomini libici armati» gli aveva garantito che dopo poco lui e gli altri trenta passeggeri di varie nazionalità avrebbero trovato una nave che li avrebbe recuperati. Come poi è effettivamente avvenuto. Agli investigatori italiani che gli hanno mostrato le fotografie di alcuni presunti trafficanti, il profugo ha indicato il libico che lui aveva pagato, e attraverso il controllo di contatti sono emersi rapporti di quel personaggio con almeno una persona che in Italia risulta aver collaborato ad alcune operazioni di soccorso e con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.