Un lavoratore su dieci guadagna il 20% in meno del minimo previsto dal contratto del suo settore. A lanciare l’allarme è Andrea Garnero, economista del dipartimento Lavoro e affari sociali dell’Ocse. Citando una serie di studi, dalle colonne del sito Lavoce.info snocciola diversi dati preoccupanti, ripartiti secondo la più prevedibile delle distribuzioni. A stare peggio sono i lavoratori delle piccole e piccolissime aziende, in particolare al Sud. È sottopagato il 18,8% del personale delle ditte sotto i 10 dipendenti; il 13,1% di quelle leggermente più grandi, fino a 15 dipendenti. La percentuale scende man mano che le dimensioni aumentano, fino alle società sopra i 250 dipendenti, nelle quali si arriva finalmente sotto il 4%.

Agricoltura più colpita

Il settore più colpito è quello dell’agricoltura, con quasi il 32% dei lavoratori sottopagati, seguito da quello di hotel e ristoranti, intorno al 21%. Il più virtuoso invece è quello della Pubblica amministrazione, nella quale si scende al 4,1%. Quanto alle regioni, a stare peggio sono Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Molise. Quelle dove le regole sono più rispettate invece sono Emilia Romagna, Lombardia, Val d’Aosta, Trentino Alto Adige e Veneto.

Le cifre

Ma quali sono le retribuzioni a cui stiamo facendo riferimento? In Italia ci sono 819 contratti di lavoro collettivi. Facendo una media tra tutti i settori, il minimo tabellare è di 9,41 euro l’ora (dato 2015). Si va dai 7,70 euro dell’agricoltura fino ai 12,95 della finanza. In mezzo ci sono gli 8,55 euro delle costruzioni, gli 8,95 dei trasporti, i 9,72 della Pubblica amministrazione. «Ci sono tanti modi - spiega l’economista - in cui un datore di lavoro può sottopagare i dipendenti. Alcuni illegali, a partire dal nero, oppure chiedendo ai dipendenti di lavorare ore extra non retribuite; oppure si possono sotto-inquadrare i lavoratori. Ma ci sono anche modi legali o quasi, come sostituire impiegati dipendenti con partite Iva. Oppure ancora firmando un accordo pirata con un sindacato poco rappresentativo».

«Troppa uniformità»

Nel suo studio intitolato «The Dog That Barks Doesn’t Bite: Coverage and Compliance of Sectoral Minimum Wages in Italy» («Il cane che abbaia non morde: coperture e conformità dei salari minimi di settore in Italia»), Garnero scrive che le cause vanno ricercate, oltre che nella tipica attitudine italiana a uno scarso rispetto delle regole (nel confronto col resto d’Europa veniamo abbondantemente dopo anche i Paesi dell’Est), anche nel fatto che «le differenze in termini di sviluppo economico e costo della vita non sono prese in considerazione nel corso della contrattazione collettiva». In generale, poi, sottolinea, i minimi contrattuali sono alti.

Cgil: «Più verifiche»

«È vero che abbiamo dei minimi non bassi rispetto a quelli europei, ma abbiamo anche bassi salari medi, a causa dei tanti part-time involontari e della tanta evasione», commenta Tania Sacchetti, segretaria nazionale Cgil con delega al mercato del lavoro. Perciò, sottolinea, «noi puntiamo all’innalzamento dei salari, perché molti restano sotto una soglia dignitosa». La questione, semmai, aggiunge, è che «bisogna rafforzare i controlli. Degli oltre 800 contratti nazionali censiti dal Cnel, il 44% è nato negli ultimi quattro anni e non è sottoscritto dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. C’è una proliferazione di associazioni, bisogna dare efficacia generale ai contratti e ridurne il numero. Oggi è diventato una giungla».

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