Da quando s’è insediato il 30 giugno scorso, il presidente Rodrigo Duterte ha conquistato un triste primato per le Filippine: una media di 17 vittime assassinate ogni giorno in pubblico da killer mascherati, uccise da poliziotti o soldati senza un processo, oppure i cui corpi vengono trovati per la strada, appallottolati dentro al nastro adesivo, un cartello al collo che avvisa: «Non fate come me, sono un criminale!».

Lo aveva promesso in campagna elettorale: «Se vinco non farò uccidere solo mille delinquenti, ma 100 mila». Così, quando ieri due esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno osato invitare il governo a metter fine alle «esecuzioni extra-giudiziali» della lotta al narcotraffico, la risposta è arrivata con una conferenza di due ore: «Forse decideremo che è venuta l’ora di separarci dalle Nazioni Unite». Poi «Duterte Harry» ha preso un tono quasi infantile, da duello a mezzogiorno nella sabbia di fronte a un saloon. Il cowboy Rodrigo e l’Onu. «Proverò al mondo che siete degli esperti molto stupidi», ha detto, «e perché dovremmo stare ad ascoltare questi stupidi? Sai, Nazioni Unite, se tu puoi dire una cattiveria su di me, io posso elencarne 10 su di te. Lascia che te lo dica: sei inutile. Perché se tu assolvessi al tuo mandato, avresti potuto fermare queste guerre e questi assassinii». E ha fatto l’occhiolino alla Cina, dichiarando che si potrebbero costituire nuove alleanze con Pechino.

In quasi due mesi al potere, Duterte ha minacciato di sciogliere il Parlamento se ostacolerà i suoi piani, ha parlato di ripristinare la legge marziale in risposta a una critica della Corte Suprema, ha accusato la Chiesa Cattolica di corruzione e ha avvisato i giornalisti a proposito del rischio assassinii: «La Costituzione non vi può aiutare se mancate di rispetto a una persona…». E poi s’è permesso di definire l’ambasciatore americano Philip Goldberg «un figlio di put... gay», con il classico linguaggio livoroso ormai comune a tanti politici anche in Occidente.

Ma è un linguaggio che paga. Difatti «il Castigatore» gode di una popolarità stellare. È al 91 per cento dei consensi tra cittadini che trovano efficace il suo stile decisionista, credono nel suo riformismo e plaudono alla capacità d’aver portato migliaia di spacciatori e di tossicodipendenti ad arrendersi alle autorità, piuttosto che farsi freddare da qualche giustiziere per la strada.

In realtà, questi omicidi sono spesso regolamenti di conti tra gang criminali. Basta impacchettare i cadaveri delle vittime con il nastro adesivo e un cartello giustizialista per fermare ogni indagine. Poliziotti e soldati hanno ricevuto carta bianca da Duterte, possono uccidere chi sospettano sia coinvolto nel narcotraffico e godere di immunità. È un male molto filippino, tanto che l’ex presidente Estrada, condannato per appropriazione indebita di 80 milioni di dollari, ricevette la grazia dalla presidente Gloria Arroyo, poi condannata anche lei, ma a cui Duterte ha promesso la grazia.

Il presidente filippino vuole chiudere tutti i conti in sospeso ed ha anche approvato la controversa sepoltura nel Cimitero degli Eroi di Manila, dopo decenni e con proteste in tutto il paese, della salma imbalsamata dell’ex dittatore Ferdinand Marcos, dall’89 in attesa in una cripta privata. Non solo, il presidente questa settimana ha liberato anche due leader del Partito Comunista che guida una guerriglia armata da 47 anni. Vuol consentir loro di viaggiare in Norvegia dove si svolgerà il dialogo per la pace di una delle più longeve lotte armate dell’Asia.

Duterte vuole chiudere con le vecchie storie del passato perché si vuole occupare del presente, di questa guerra spietata la cui prima vittima è una democrazia dove molti elettori, assetati di sangue, sembrano felici che le Filippine si trasformino in un incrocio tra Hunger Games e il Trono di Spade.

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