Milano, 13 ottobre 2014 - 10:10

Il bebè è in salute? La vera utilità
e i limiti del test sul Dna fetale

Le indagini prenatali possono contare da pochi anni su un esame semplice e innocuo. Ma gli esperti chiariscono il modo corretto di utilizzarlo e interpretarlo

di Elena Meli

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Mio figlio sarà sano? È la domanda che assilla ogni donna fin da quando il test di gravidanza risulta positivo. Così, le future mamme non possono restare indifferenti di fronte a un esame che con un semplice prelievo di sangue promette di svelare tutto o quasi sulla salute del nascituro: è il caso del test del Dna libero, o del Dna fetale (anche Nipt, da Non Invasive Prenatal Testing), proposto da poco meno di due anni anche in Italia e descritto non di rado su Internet come l’analisi che, a fronte di un’invasività pressoché nulla, sarebbe in grado di risolvere tutti i timori. Ma è davvero così? Uno studio recente pubblicato su Genetics in Medicine sembra dubitarne: secondo i dati raccolti su 109 donne con test risultato positivo (ovvero con la segnalazione di problemi al feto), la quota di casi realmente positivi, confermati da amniocentesi o villocentesi, sarebbe più bassa del previsto, tanto da mettere in forse la capacità predittiva dell’esame.

«In realtà, tutti gli studi condotti finora, su un numero molto maggiore di donne, indicano che la percentuale di falsi positivi (casi in cui il test è positivo, ma il bimbo è sano, ndr) è circa lo 0.1% - spiega Nicola Persico, ginecologo esperto di diagnosi e terapia fetale della Clinica Mangiagalli di Milano -. La discrepanza deriva dal fatto che per questa ricerca non sono state considerate tutte le donne sottoposte al test, ma solo quelle con risultati positivi: questo “gonfia” la percentuale dei falsi positivi, che invece va calcolata sul totale degli esami. Il test del Dna fetale ha un’alta affidabilità: per la sindrome di Down oltre il 99%. La domanda semmai è come usarlo correttamente». «L’equivoco è crederlo un test diagnostico, come amniocentesi o villocentesi, quando invece può servire solo per individuare le donne ad alto rischio di avere un bimbo con malformazioni - dice Paolo Scollo, presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigu) e segretario dell’Italian College of Fetal Maternal Medicine -. Significa che un risultato positivo va sempre confermato con un esame invasivo, a cui il test del Dna fetale non può perciò in alcun modo sostituirsi, come a volte si fa credere». Già, perché l’esame per ora è offerto solo da centri privati a un costo che va dai 500 ai 700 euro. E anche se è un test affidabile, bisogna comunque ammettere che ha dei limiti, elencati nel “Documento di indirizzo sull’impiego delle indagini prenatali non invasive” della Società Italiana di Genetica Umana.

Il documento sottolinea come sensibilità e specificità non siano elevate per tutti i cromosomi, e il test serva principalmente per individuare la sindrome di Down e le trisomie 13 e 18; non riconosce, invece, la metà delle anomalie identificate con la diagnosi prenatale invasiva classica, né alcuni problemi che possono essere svelati da un’ecografia. «Le coppie dovrebbero informarsi presso servizi di consulenza genetica ospedalieri - osserva Maria Cristina Rosatelli, coordinatrice del documento Sigu sui test prenatali non invasivi -. Tuttora, nessun Servizio sanitario rimborsa il test, e poiché le linee guida di nessun Paese o società scientifica lo hanno inserito nel percorso di screening e diagnosi prenatale è essenziale che la decisione di farlo o meno sia accompagnata da una consulenza attenta». «La raccomandazione più sensata, oggi, è utilizzarlo come test di screening di secondo livello nelle donne che siano risultate a rischio intermedio al test combinato (traslucenza nucale, più test specifici sul sangue) - dice Persico -. In queste donne il test è utile per rafforzare sospetti e indicare l’opportunità di un esame diagnostico invasivo o, al contrario, tranquillizzare con un alto grado di affidabilità».

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