L’ammissione non potrebbe essere più calzante. «Non avrei mai pensato che dopo vent’anni che tento di cambiare l’articolo 18, a farlo sarebbe stato un governo guidato dal segretario di un partito di sinistra». E viene fatta a chi gli riconosce di aver vinto la battaglia sul Jobs Act. «È vero abbiamo vinto, anche se fino a ieri abbiamo dovuto far finta di litigare con la minoranza Pd. Ma il governo è stato bravissimo a trovare un accordo e ora siamo entrambi soddisfatti. Le deleghe credo daranno ragione più a noi che a loro». Più che un auspicio, quasi una certezza, se l’ultima battuta con Taddei è questa: «Ti chiamo domani per concordare l’ultimo punto sui licenziamenti».

Maurizio Sacconi arriva da vincitore col sorriso stampato in faccia tra gli «amici» della Uil andando a ingrossare la pattuglia molto numerosa di ex socialisti. Si siede di fianco a Filippo Taddei, il responsabile economia Pd, uno che quando parla del Jobs Act dice: «Io presenterò la delega sul contratto a tutele crescenti entro metà dicembre», come se fosse il ministro del Lavoro. I due parlottano e annuiscono reciprocamente.

Quando Angeletti finisce il suo discorso d’addio pronunciando la parola «Grazie», Sacconi applaude sentendosi chiamato in causa e va ad abbracciare «l’amico Luigi». Fu lui da ministro del governo Berlusconi a teorizzare in realtà l’isolamento della Cgil che portò all’epoca dei contratti separati. Gli abbracci, i selfie con i delegati si sprecano. E poco male se il tutto avviene nel giorno in cui la Uil diventa barricadera assieme alla Cgil. «Lo sciopero generale è un grave errore in un tempo come questo, così difficile. Mi auguro si possa evitare perché questo è un tempo in cui non ci possiamo permettere il lusso di interrompere la produzione e fermare i servizi», chiosa poco convinto che accadrà.