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Rivoluzione in corsia Il paziente deve provare l’errore del medico

Nelle cause civili di malasanità, ricade sul paziente l’onere di provare la colpa del medico, e per agire in giudizio ci sono non più dieci anni di tempo ma solo cinque: con una sentenza che cambia un ventennio di giurisprudenza italiana il Tribunale di Milano rivoluziona il sistema della responsabilità civile da «malpractice medica» a seguito della legge Balduzzi del 2012, alleggerisce i rischi gravanti su centinaia di migliaia di medici ospedalieri, e determina due importanti novità per i pazienti in causa. 

Sono tutte conseguenze del fatto che la sentenza qualifichi la responsabilità del medico ospedaliero come «extracontrattuale da fatto illecito» (articolo 2.043 Codice), e non «contrattuale» (articolo 1.128) come avveniva per il medico in base alla teoria del «contatto sociale» e per l’ospedale in base all’idea di contratto obbligatorio atipico di «assistenza sanitaria» perfezionabile già con la sola accettazione del malato in ospedale. L’effetto era che spesso il medico vedeva porre a suo carico l’obbligazione di risarcire il danno anche quando non era in grado di provare che avesse ben operato o che il danno fosse derivato da una causa a lui non imputabile.


Ma «tale inquadramento - ragiona ora il Tribunale milanese in un caso di paralisi di corde vocali nel 2008 al Policlinico di Milano, risarcito con 44.000 euro -, unito all’accresciuta entità dei risarcimenti liquidati, ha indubitabilmente comportato una maggiore esposizione di tale categoria professionale al rischio di dover risarcire danni anche ingenti, con proporzionale aumento dei premi assicurativi. Ed ha involontariamente finito per contribuire all’esplosione del fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva” come reazione al proliferare delle azioni di responsabilità promosse contro i medici».

Esattamente quanto nel 2012 si propose di arginare il comma 1 dell’articolo 3 del decreto legge dell’allora ministro della Sanità nel governo Monti, Renato Balduzzi, oggi neocomponente del Consiglio Superiore della Magistratura: il medico «che si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2.043 del Codice civile». Quest’ultimo inciso era stato sinora depotenziato sia dai giudici di merito sia dalla Cassazione, spesso declassato quasi a svista o a equivoco del legislatore. 
Ma ora il Tribunale di Milano non si sente «autorizzato a ritenere che il legislatore abbia ignorato il senso del richiamo alla norma cardine della responsabilità da fatto illecito», anzi il fatto che «si sia premurato di precisarlo in sede di conversione del decreto» fa escludere sia stata una svista. «Compito dell’interprete non è quello di svuotare di significato la previsione normativa, bensì di attribuire alla norma il senso che può avere in base al suo tenore letterale e all’intenzione del legislatore»: con quello che ne consegue «in tema di riparto dell’onere della prova» (cioè non è più il medico a dover provare la propria correttezza, ma il paziente a dover provare la colpa del medico), e in tema «di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno» (5 anni invece di 10). 
Per la sentenza del giudice Patrizio Gattari, che non è una fuga in avanti isolata ma una elaborazione condivisa dall’intera prima sezione civile del Tribunale, non si rischia «un’apprezzabile compressione» del diritto alla salute del paziente, perché la responsabilità di tipo contrattuale resta attivabile contro l’ospedale invece che contro il medico: anzi, secondo il Tribunale di Milano, «ricondurre la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità da fatto illecito dovrebbe favorire l’alleanza terapeutica fra medico e paziente, senza che venga inquinata (più o meno inconsciamente) da un sottinteso e strisciante “obbligo di risultato” al quale il medico non è normativamente tenuto, spesso alla base di scelte terapeutiche difensive, pregiudizievoli per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato». 
I criteri di imputabilità di medico e ospedale sono dunque distinti, ma, nel caso di condanna di entrambi, ospedale e medico restano chiamati in solido a risarcire il danno (articolo 2.055) perché «unico» è «il fatto dannoso». 

Di Luigi Ferrarella
Fonte: milano.corriere.it



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