Si dice che i sensi di colpa nascono quando si viola una norma, quando si fa qualcosa pur sapendo perfettamente che non la si sarebbe dovuta fare, quando c’è qualcuno che soffre a causa nostra. Si dice che la colpa è sempre la conseguenza di un’azione o di un comportamento, di un’omissione o di un’assenza. Si dice, appunto! Perché poi, nella realtà, è sempre tutto più complicato. E allora capita spesso di sentirsi in colpa anche per ciò che si è o non si è. Non ci si sente in colpa solo perché si sarebbe fatto o meno qualcosa, ma anche, e forse soprattutto, a casa del proprio essere.
«Sono sbagliato».
«Sono fatto male». «Sono inadeguato». «Sono cattivo». E allora ci si incarta da soli. Perché è questa colpa esistenziale, quasi ontologica, che pian piano ci sotterra. E tutto quello che succede sembra la conseguenza più o meno inevitabile di un errore di fabbrica. «È logico che ne se vada via». «È ovvio che mi abbandoni». «È chiaro che mi butti via».
Ma in che senso? Perché? Come? Che c’entra la perdita con il «demerito» della propria natura? Niente, appunto. Esattamente come non è mai perché «ce lo meritiamo» o siamo stati «bravi» che qualcuno resta, ci ama, ci accetta, ci sopporta. Si può fare assolutamente tutto quello che è in proprio potere, e poi perdere l’uomo o la donna che amiamo. Così come possiamo non fare assolutamente niente, e renderci conto che l’altro, nonostante tutto, non se ne va via.
«Ma allora è ingiusto?» mi dice Stefania, guardandomi senza capire, quasi arrabbiata. «Perché ingiusto? Mica stiamo parlando di un esame o di un concorso, anche se poi, anche lì, talvolta i risultati non sono direttamente proporzionali agli sforzi compiuti. Stiamo parlando dell’amore. Stiamo parlando di ciò che siamo e di ciò che, nonostante tutti gli sforzi, di fatto non possiamo cambiare».
«Ma certo che si cambia! Certo che possiamo modificarci!!». Ma il problema, ovviamente, non è quello del cambiamento. Non sto dicendo che non si possa fare nulla per smussare gli angoli più spigolosi del proprio carattere, o per imparare a relativizzare alcune cose. Sto solo dicendo che non possiamo sentirci in colpa per ciò che siamo, per le nostre fragilità e le nostre debolezze, talvolta anche per quel pizzico di follia che ci portiamo dentro. Perché le fragilità e le debolezze ce le hanno tutti. E forse non c’è nessuno che non porti dentro di sé anche un pizzico di follia.
Se qualcuno se ne va via perché, secondo lui, non andiamo bene, allora è meglio così. Tanto, con persone di questo genere, lo sforzo non sarebbe mai proporzionato o sufficiente, non basterebbe mai, non saremmo mai all’altezza delle sue aspettative. E l’unica cosa che può accadere è sentirci sempre più in colpa. Fino al dramma della perdita da cui, se ci sentiamo veramente colpevoli, rischiamo di non rimetterci più.
Il problema è la tolleranza. Il problema è l’accettazione. Il problema è il rapporto che stabiliamo con noi stessi, prima ancora che con gli altri. Capendo una volta per tutte che non è vero che se «lui» o «lei» non ci guardano, allora non esistiamo. Non è vero che se «lui» o «lei» non ci rispondono, allora scompariamo.
Non è vero che se «lui» o «lei» non ci amano e se ne vanno via, allora è colpa nostra. Se anche nell’amore tutto fosse legato al «merito», allora non varrebbe nemmeno la pena di amare. Se fosse per colpa nostra che una storia finisce, allora non resterebbe altro che lasciarsi andare al nulla, e accompagnare la caduta con la disperazione di chi non ha più alcuna risorsa.