Quando la notte del terremoto il sindaco ha detto che «Amatrice non esiste più», non avevamo capito in pieno il significato dell’espressione. La fine di Amatrice ha ovviamente a che fare con tutto quello che abbiamo visto.

Il centro spazzato via come per una manata dal cielo, l’azzeramento fisico di un centro storico piccolo e bello, la morte dei turisti e del turismo, dei negozi e del sostentamento, di molti bambini e del futuro che portano con sé.

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Le conferme ai cliché

Con le telecamere sono arrivate troupe da tutto il mondo, dall’Inghilterra, dal Belgio, dalla Finlandia, dalla Francia, dalla Germania, dal Giappone. Una quantità inspiegabile, raramente s’era vista una mobilitazione simile e non ne capivamo le ragioni. I reporter stranieri arrivavano e filmavano già a qualche chilometro dal centro, felici di una conferma toponomastica ai loro clichés: «Benvenuti ad Amatrice, la città degli spaghetti all’amatriciana». Perché poi era un cliché che Amatrice accettava volentieri, anzi sollecitava, come dimostrano i cartelli stradali e i manifesti strappati. La pasta col pomodoro, il pecorino e il guanciale sono la gloria e l’essenza della città; l’Hotel Roma, collassato a fianco al Corso, e dove sono morti parecchi ospiti, e l’albergo Castagneto, che resiste in piedi ma inagibile agli immediati margini del centro, si disputavano come in un derby l’eccellenza nella preparazione degli spaghetti. Il Roma con la fama del depositario della ricetta, una santuario per i villeggianti, e il Castagneto, più amato dai buongustai locali e specialmente dai reatini.

Ieri, e poi oggi, al Roma e nel resto del paese si sarebbe dovuta tenere la cinquantesima edizione della sagra dell’amatriciana. La festa attesa da un anno e infatti, come tutti sapete, Amatrice era piena per questo: una popolazione decuplicata da tre a trentamila, di modo che il destino facesse centro pieno. Andate a rivedere su Google l’allegria e l’orgoglio con cui si annunciavano le celebrazioni ed è banale - e dunque evidente, con tutta forza - lo straziante contrasto fra quello che doveva essere e quello che è, raccontato con minuzia in ogni cronaca. Di fronte alla scuola elementare, crollata in due fasi sotto due diverse scosse, c’è il piazzale ora occupato dalle camionette dei carabinieri: lì si regge in piedi un cartello scritto a mano che inibisce il parcheggio nei giorni 27 e 28 - ieri e oggi - per lasciar spazio ai tavoli dove si sarebbero alzate le forchette alla luna. Il parcheggio continua a essere vietato in favore dei mezzi di soccorso. Appena sotto, in una specie di anfiteatro in cemento, da cui si assiste dal basso all’allucinante spettacolo delle rovine, qualche tavolo era già stato posto ed è rimasto lì, in un ampio spazio grigio e deserto; un involontario memoriale. A poche decine di metri si fanno le code per le medicine alla farmacia della Croce Rossa, per abiti e fette biscottate allo spaccio della Croce di Malta, negli uffici per le pratiche funerarie, ai bagni chimici nei campi della Protezione civile, al giardino dei senza nome per il riconoscimento dei morti non identificati, alla mensa per un pasto caldo, e cioè per un pasto non più speciale, da offrire al mondo, ma un pasto qualsiasi che il mondo ha offerto.

La cucina e la catastrofe

E fin qui sarebbe tutto normale: sarebbe il periodico trionfo del demonio. Ma venerdì, a un cronista che cercava di tirargli su il morale dicendogli che la miglior amatriciana del mondo si cucinava nel suo ristorante, il titolare del Castagneto ha risposto con uno sguardo smarrito. Che senso ha parlare di cucina davanti alla catastrofe? E infatti in questi giorni non se ne è mai parlato, si faceva molta attenzione a dimenticarsi le ragioni della fama di Amatrice, si lasciava il dettaglio a pochi pezzi storici e, appunto, alla bulimia evocativa dei giornalisti esteri. Tutto quello che sembra rimanere di una tradizione così radicata è l’angoscia dei pastori per le greggi da raggiungere e accudire nelle frazioni lontane e da preservare dalla voracità dei lupi che - ha detto pochi giorni fa Sabatino, 83 anni - «la modernità ci ha portato sull’uscio», e quella degli allevatori di maiali, coi medesimi problemi. Le pecore e il pecorino, i maiali e il guanciale, ma era una pura conseguenza, non una rivendicazione.

Non abbiamo riflettuto su questa seconda distruzione di Amatrice. La città «non c’è più» perché è scomparsa dall’orizzonte e perché è scomparsa nella sua identità. Il pudore dei giornalisti e il disinteresse dei sopravvissuti sono il sintomo che insieme con le case e i negozi e le chiese si è sbriciolata la memoria: oramai non c’è motivo di ricordare qual era l’anima se non c’è più la fisionomia. Oggi Amatrice è questa: stordita dal dolore, frenetica in un andirivieni ansiogeno di soccorritori e di rifugiati, una comunità per cui non c’è passato oltre le 3,36 del 24 agosto, in cui ognuno parla di sé per i figli e i genitori persi, per le condizioni della casa, e al massimo per le necessità del momento. Fine delle mura, fine della memoria, fine dell’identità, fine di sé. E questa non può essere l’ultima riga della storia.

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