Il nostro immaginario colonizzato dalla forza inesauribile degli stereotipi

I luoghi comuni ci impediscono di vedere ciò che è altro rispetto a noi. E lasciano sempre fuori la realtà. Che è molto più sfaccettata e complicata

Che pensare del recente tentativo del cinema hollywoodiano di integrare le tematiche gender? È possibile uscire dagli stereotipi di genere che da sempre inquinano e colonizzano l'immaginario collettivo senza cadere immediatamente nella trappola di altri stereotipi?

L'insieme di simboli, miti e metafore che tessono la trama di fondo dell'immaginario cinematografico e collettivo non sono solo il risultato di stratificazioni successive, ma soprattutto il frutto di convinzioni e pregiudizi arcaici. È forse per questo che, ancora oggi, le rappresentazioni e le immagini della femminilità e della virilità rinviano a un universo concettale rigido e binario: bianco e nero, anima e corpo, eterosessuale e omosessuale, puro e impuro. Il tutto condito con intrecci e narrazioni che, nonostante le apparenti novità, non fanno altro che raccontare la solita storia: la donna — carina o smorfiosa, docile o pettegola, paziente o ipersensibile — sempre e comunque oggetto del desiderio voyeuristico maschile; l'uomo — sicuro o onesto, pensieroso o audace, concentrato o fiero — sempre e comunque soggetto di desiderio o di possesso. E anche quando si cerca di raccontare la storia in maniera diversa, lo si fa invertendo l'ordine dei fattori, limitandosi spesso ad attribuire agli uomini alcune caratteristiche femminili e alle donne alcuni tratti maschili. Il tutto in maniera automatica e goffa, talvolta persino ridicola. Tagliando fuori le molteplici complessità del reale e lasciando allo spettatore l'amara sensazione che l'uomo e la donna, di fatto, non possano mai essere "altro" rispetto a ciò che sono sempre stati.

Come rappresentare d'altronde questo "altro" quando, nonostante gli sforzi, ci si limita a invertire i ruoli di genere? Come raccontare questo "altro" quando i gesti, le parole, le attitudini e le emozioni sono astratti e inconsistenti? Poco importa, allora, se si parla di omosessualità o se, per una volta, l'oggetto del desiderio voyeuristico è un uomo piuttosto che una donna. Anche se tutto è diverso, in fondo, tutto resta uguale e immobile. Proprio come gli stereotipi. Che per definizione lasciano fuori la realtà. E che, colonizzando il nostro immaginario, ci evitano la fatica di andare oltre i luoghi comuni, e quindi pensare, e quindi immaginare — come nel film

Tra le nuvole quando George Clooney, accusato di essere razzista, risponde pacatamente: «Sono come mia madre. Mi affido agli stereotipi. Si fa prima».

Certo, si immagina sempre e solo a partire da ciò che si conosce. Si immagina sempre e solo a partire dagli strumenti che si sono progressivamente acquisiti per leggere e interpretare il mondo — come ci insegna il filosofo francese Gaston Bachelard: «La nostra appartenenza al mondo delle immagini è più forte e più costitutiva del nostro essere che l'appartenenza al mondo delle idee». Ma allora è proprio su questi strumenti interpretativi che, forse, si dovrebbe intervenire se si vuole veramente liberare l'immaginario. E smetterla una volta per tutte di vedere e ascoltare solo ciò che ci è familiare. Sono d'altronde proprio gli occhiali deformanti degli stereotipi che ci impediscono non solo di vedere e di ascoltare ciò che è "altro" rispetto a noi, ma anche di integrare nell'immaginario le tematiche di genere.

L'immaginario si scioglie, si svincola e si affranca dalle consuetudini solo quando si nutre di reale. Quello fatto di contraddizioni e di cose che forse non ci piacciono, ma che esistono. Esattamente come esistono donne che si realizzano solo nella maternità e donne che si rifiutano di diventare madri; gay che promettono al compagno di restargli fedele nella buona come nella cattiva sorte e gay che moltiplicano le conquiste e spezzano il cuore dei propri amanti; lesbiche seduttrici e piene di femminilità e donne eterosessuali dai tratti mascolini. Mille e mille sfaccettature. Quelle della realtà, appunto. Quelle che gli stereotipi cancellano, privando il mondo di qualunque sfumatura.

«La conoscenza del reale», scrive Bachelard «è una luce che proietta sempre da qualche parte delle ombre». Quelle stesse ombre che talvolta ci costringono a rimettere in discussione le nostre certezze e i nostri valori. Una sfida quindi. Che forse è ancora troppo grande per il cinema hollywoodiano, abituato com'è a soddisfarsi di evidenze. Ma non è solo così che nasce la verità, quella che, ancora secondo Bachelard, emerge sempre nonostante, e malgrado, le evidenze?

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Michela Marzano