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venerdì 17 aprile 2015

Il caro prezzo.

Oggi ho deciso di trasformarmi nell’Iva Zanicchi d’antan è lanciare una nuova serie di “Ok il prezzo è giusto”. Vorrei chiedermi, e chiedervi, se davvero sappiamo quanto costano gli aggetti, le esperienze e i servizi che acquistiamo. 

Ad esempio, in linea di massima, le brave massaie e gli studenti fuori sede più degli altri, sappiamo tutti il prezzo di un kilo di pasta, di un litro di latte, di un kilo di macinato di manzo, di una pianta di lattuga. La situazione è già più complicata se ci chiediamo: quanto costa un paio di scarpe? Una crema per il viso? Un paio di Jeans? Un automobile? La risposta non è più così semplice…. Parliamo di scarpe di alta moda in pelle di pitone albino o di un paio di flip flop dei grandi magazzini? Di una Ferrari o di un macinino da 50 cavalli? Senza stare a disquisire sugli elementi che contribuiscono a determinare il prezzo di un bene, i materiali, la pubblicità, il trasporto e via dicendo, è bene sapere che ciò che determina il prezzo di un prodotto è l’equilibrio tra domanda e offerta.
Questo significa che se un jeans viene venduto a 20 euro e un pantalone dello stesso materiale di una nota Maison di moda viene venduto a 800 e perché chiediamo di spendere 800 euro per un capo di vestiario. Non c’è dubbio che il jeans di sartoria sia realizzato con materiali di maggiore qualità, magari in Italia e quant'altro, ma questo non giustifica un prezzo 40 volte superiore al suo omologo. E’ il consumismo, bellezza.
 Il problema, la spina nel fianco che mi tiene scomoda rispetto a questo meccanismo è che, in effetti, nessuno di noi ha idea di quale sia il reale costo di ciò che compriamo.  Ogni chilo di pasta, di carne e di verdura, ogni paio di scarpe, ogni automobile oltre al prezzo sul cartellino ha un costo sommerso, in termini di esternalità negative.
 Queste esternalità non sono altro che le conseguenze derivanti da una certa attività, produttiva in questo caso, che pesano in termini monetari o di sacrifici, sull’intera comunità, e non sui produttori. Un esempio: la produzione di un pallone da calcio costa, mettiamo, 1. Il produttore cercherà tutti i modi per abbassare il costo di produzione, dislocando l’azienda dove il costo del lavoro è minore o le regole per il rispetto dell’ambiente sono meno rigide. Probabilmente riuscirà ad abbassare il costo a 0,5. Noi, che fino a ieri compravamo il pallone a 4 magari lo potremo comprare a 2, o comprarne 2 al prezzo di uno!
Abbiamo risparmiato? NO.
Per produrre quel pallone da calcio hanno inquinato un fiume con le scorie, avvelenato i lavoratori con le sostanze chimiche, abbattuto un pezzo di foresta pluviale per installare la fabbrica. Questi costi, sia in termini monetari, gestioni delle conseguenze ambientali da parte degli Stati, aiuti allo sviluppo per sostenere i lavoratori, che di rinunce, non avremo più la possibilità di bere da quel fiume o respirare l’ossigeno prodotto da quella foresta, vengono pagati da ogni individuo. Se potessero ricadere sul produttore magari improvvisamente il pallone costerebbe 6. Il che non sarebbe necessariamente un dramma. Prima di tutto perché sarebbe uno stimolo per la società civile a chiedere una produzione sostenibile, la produzione intensiva non lo è in maniera esponenziale, in secondo luogo perché ci farebbe capire che non ci servono 2,3,4,5 o 6 palloni.
Il disboscamento nella foresta di Willamette, Oregon.

Non ci serve mangiare carne tutti i giorni, se per produrre ogni etto di carne vengono abbattuti sei metri quadri di foresta pluviale con i 75kg di forme di vita che contengono. Non ci serve una macchina a persona in una famiglia. Non ci serve il nuovo deodorante che fa le ascelle glitterate, o l'idromassaggio a ozono per cani. Non ci serve cambiare telefono ogni 3 mesi. Credetemi, non ci serve. Non ci serve prendere un antibiotico per il mal di gola, non ci serve.  Il “benessere” che ormai associamo all’avere tutto, e più, e in avanzo, dal mio punto di vista, è tutta un’altra cosa. Io sto bene quando sento che quello che compro è necessario, quando scelgo un prodotto più etico e meno impattante, quando sono in grado di fare delle rinunce, perché il mio “benessere” è la speranza di non mandare le prossime generazioni a sbranarsi a vicenda per acqua, cibo e aria. Il dramma, è che mentre nell’Occidente bulimico qualcosa si sta muovendo nella direzione della decrescita e della sostenibilità, ebbene sì ci sono sempre più persone che vivono senza macchina, senza sprechi e addirittura senza soldi, l’industria continua a creare bisogni. E purtroppo, sta allargando questo modello anche alle economie emergenti e ai nuovi giganti. Ci sono sempre più realtà che hanno concentrato sulle zone povere e in via di sviluppo il proprio impegno per creare bisogni.
Coca Cola ha creato il kit per trasformare le bottiglie di plastica in annaffiatoi, giocattoli e porta spazzolini. Lo regala con ogni bottiglia in qualche (non si capisce quale) Paese del "terzo mondo". Bene. Bravi. Ma a loro, come a noi, non serve la coca cola, né la bottiglia di plastica. Ai bambini guatemaltechi non serve essere nutriti a bibite gasate e patatine, quando le loro famiglie non riescono a comprare riso e fagioli per evitare che muoiano di malnutrizione. Alle donne colombiane non serve un kit di creme “antirughe” da 500 dollari, perché ogni 2 minuti muore una donna di parto, e la gran parte del paese vive con meno di 4 dollari al giorno nel mezzo di una guerra civile che dura da decenni e ha fatto 270.000 morti.
Eppure, lì e altrove le multinazionali stanno esportando pubblicità, catene di negozi e vendite piramidali. Eppure ci stanno riuscendo a convincere le donne indiane che a loro serve la borsetta firmata, le famiglie che vivono negli immondezzai che la tv satellitare è necessaria. A dire il vero sono anni che questa subdola infiltrazione va avanti: La Nestlè è stata chiamata in causa perché in sud e centro America, in alcune zone dell’Africa e dell’India ha spinto così tanto, attraverso campioni gratuiti e spot, il consumo del latte artificiale che la mortalità infantile ha subito un aumento, poiché le donne non allattavano più al seno.
Il benessere, lì, come qui, è un’illusione, una bugia, un tira e molla con la parte più fragile dell’animo umano.
 Finchè non capiremo questo saranno inutili le campagne contro i big della moda che sfruttano i lavoratori in India, contro i produttori di carne che disboscano l’Amazzonia, le multinazionali, le case farmaceutiche, perfino i mercanti d’armi. Quelle sono solo le parti superiori di un castello di carte, alla cui base ci siamo noi e i bisogni che ci hanno convinti di avere. E’ per questo che dobbiamo comprendere prima di ogni altra cosa il vero costo di ciò che compriamo. E’ per questo che dobbiamo allargare la visione alle conseguenze e spingere la nostra evoluzione empatica, sociale, culturale e spirituale verso la consapevolezza. La consapevolezza che per permettere ad alcuni di avere troppo, più che troppo, la maggior parte non ha niente oltre la disperazione. La consapevolezza che se il piano funzionerà, se tutto il mondo comincerà a consumare come noi, il sistema imploderà. Addio macchine, addio jeans da 800 euro, addio creme e cremine, benvenuto medioevo.
La consapevolezza che l’essere è quello a cui dovremmo aspirare, più che all’avere, che la vera ricchezza sta nell’equilibrio, fra natura e uomo, fra fame o obesità, nell’empatia, nella felicità, nella coesione, nella pace. La ricchezza c’è, si tratta di mobilitarla. Io sto cercando di arricchirmi, e voi?

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