Milano, 19 marzo 2014 - 21:49

Mia figlia Ilaria uccisa due volte, a Mogadiscio e dalle autorità italiane che dovevano indagare

A vent'anni dal duplice omicidio degli inviati del tg3 Luciana Alpi chiede alla Presidente Boldrini di svelare gli atti secretati della Commissione di inchiesta sull'omicidio della figlia

di Sabrina Giannini

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«Sono passati vent’anni dal giorno in cui un proiettile colpì alla testa mia figlia Ilaria e Miran Hrovatin e ormai nutro poche speranze che qualcuno voglia trovare i mandanti di quell’esecuzione», è l’amara analisi di Luciana Alpi ormai rimasta sola dopo la scomparsa del marito Giorgio nella ricerca della verità sull’omicidio della figlia, inviata in Somalia per il TG3.

Una coppia che ha sacrificato il diritto all’oblio per un tributo d’amore e di rispetto verso Ilaria, bussando a tutte le porte con la speranza che fossero quelle giuste ma che, una dopo l’altra, si sono richiuse con rituale riluttanza, a volte con disumana violenza, davanti a due genitori disposti a sopportare qualunque ricordo pur di dare giustizia alla propria figlia, perfino a rivedere il suo volto giovane coperto di sangue, riascoltare la sua voce, rivederla nelle cronache puntali sui rifiuti illeciti delle aziende italiane che facevano affari con i soldi della cooperazione in Somalia e intrecciati a doppio filo con i partiti che nel 1994 tentavano di sopravvivere all’onda d’urto di Tangentopoli.

Ilaria stava indagando proprio sui miliardi regalati ai signori della guerra di Mogadiscio e agli interessi che portavano al trasporto di rifiuti tossico-nocivi e di armi che riempivano le navi regalate con i fondi elargiti dalla Farnesina.

L’intervista cruciale sul commercio di armi al sultano di Bosaso che Ilaria aveva realizzato il giorno prima di cadere vittima dell’agguato durava due ore e non soltanto quindici minuti. «Abbiamo saputo della reale durata dell’intervista soltanto dieci anni dopo. Ma cosa potevamo attendarci da un magistrato, Franco Ionta, che non ha mai indagato sul luogo dell’omicidio?» Eppure fu accertato quasi subito che, con una macabra operazione chirurgica, qualcuno si era preso la briga di sottrarre alcune delle cassette girate da Miran e gli appunti di Ilaria quando i loro corpi erano ancora caldi, chiusi nella stiva dell’aereo che li stava riportando a casa.

Quei sigilli violati non hanno incuriosito più di tanto la magistratura che avrebbe dovuto raccogliere le testimonianze chiave, come quella di Jelle, l’uomo della scorta sopravvissuto all’agguato insieme all’autista di Ilaria, la cui testimonianza ha incastrato il somalo Hashi Omar Hassan, attualmente l’unico incolpato del duplice omicidio. Ma quel venti marzo di venti anni fa alle ore 14,05 il commando era composto da sette uomini.

Accerchiarono l’auto davanti all’hotel Amana dove Ilaria aveva un appuntamento con un collega. Ma il giornalista era già ripartito per l’Italia a ridosso delle truppe dell’Onu in ritirata dalla fallimentare missione Restor Hope, per cui quella telefonata che aveva spinto Ilaria nella zona a rischio di Mogadiscio era una trappola. Non c’è stato governo che abbia preteso dagli statunitensi l’immagine satellitare di Mogadiscio che fotografava l’istante dell’agguato.

Disinteressati anche a scoprire come mai l’importante uomo dei servizi segreti italiani Luca Rajola Pescarini (anche lui giunto in seguito ai vertici della carriera) non riuscì a dare una spiegazione attendibile circa la cancellazione di un passaggio (cruciale) del messaggio inviato dall’agente in Somalia nel quale si riferiva che «Ilaria Alpi, il giorno prima della sua uccisione, era stata minacciata, in Bosaso, di morte». L’ombra dei servizi, come in tanti altri segreti italiani.

La Presidente della Camera Laura Boldrini ha annunciato di desecretare gli atti della Commissione di inchiesta parlamentare sui rifiuti (750 documenti, alcuni anche sulle indagini che stava seguendo Ilaria), ma il passo successivo dovrebbe essere quello di togliere il segreto anche sui molti atti riservati della Commissione parlamentare sull’omicidio Alpi-Hrovatin che, secondo il presidente Carlo Taormina, «si era conclusa tragicamente senza ragioni che non fossero quelle di un atto delinquenziale comune». Aggiunse che Ilaria e Miran erano in Somalia per “fare una vacanza”. Più recentemente ai microfoni di Radio24 Taormina aveva dichiarato di «possedere documenti riservati dai quali risultavano elementi decisivi nella storia di Ilaria Alpi» ma che li teneva nel cassetto per rispetto verso i genitori della giornalista.

«Attendo da vent’anni che esca tutta la verità», risponde Luciana, «quindi Taormina tiri fuori tutte le carte in suo possesso, anche quelle che la Commissione da lui presieduta ha voluto secretare».

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