SE LA STORIA FAMILIARE DIVENTA UN DILEMMA ETICO

DADOVEv engo? Chi sono? Domande come queste, prima o poi, ce le poniamo tutti. Perché nessuno di noi sa esattamente chi sia. Anche quando di certezze ce ne sono tante. E fin da piccoli, parenti e amici non hanno fatto altro che ripeterci quanto somigliavamo alla nonna o alla zia, e quanto il nostro sorriso o i nostri occhi fossero come quelli di papà o di mamma. Figuriamoci allora che cosa può accadere a chi, adottato o nato grazie ad una fecondazione eterologa, di certezze ne ha molte meno. E talvolta deve fare i conti, fin da piccolo, con segreti e bugie. I propri genitori sono papà e mamma, certo. Ma che cosa è accaduto prima? Quale Dna si portano dentro?

Il problema dell'accesso alle proprie origini è una questione etica estremamente complessa e controversa. Perché se è vero che ogni bambino ha il diritto di conoscere le proprie origini per consolidare la propria identità — come ricorda anche la Corte Costituzionale in una recente sentenza — , è anche vero che non è facile capire che cosa si intenda esattamente quando si parla di origini. Quelle biologiche? Quelle sociali? Quelle giuridiche? La Consulta non ha dubbi: il problema dell'accesso alle proprie origini non è una questione di "codice genetico" o di "identità biologica". È piuttosto una questione di senso e di direzione. Una questione di radici e di memoria. Ecco perché permettere ai figli di conoscere le proprie origini significa permettere loro di "accedere alla propria storia parentale". Quando c'è un "segreto familiare" — o un'assenza totale di informazioni sul proprio passato — è d'altronde difficile (se non impossibile) dare un senso al malessere che ci si può portare dentro. Non perché non si sia stati amati dai propri genitori. Talvolta l'amore che arriva dai genitori adottivi, o che hanno usufruito di una fecondazione eterologa, è veramente tanto. Solo perché anche l'amore più grande non può colmare il bisogno di capire da dove si viene, che è poi la conditio sine qua non per sapere chi si è, verso dove si vuole andare, quali ferite o fratture ci si porta dentro. Soprattutto quando si è stati adottati dopo essere stati abbandonati. E restano in sospeso tante domande: perché io? Che cosa ha spinto o costretto mia madre a non tenermi con sé?

Questo riferimento alla storia parentale, però, permette di capire e spiegare la differenza essenziale che esiste tra il caso dei figli adottati — che rivendicano il diritto di conoscere l'identità dei propri genitori biologici per avere accesso a un pezzo della propria storia — e quello di coloro che, nati grazie ad un'inseminazione eterologa, vorrebbero che l'anonimato dei donatori venisse tolto, anche se tra donatori e storia parentale non c'è alcun legame. Certo, anche in questo secondo caso esiste una storia da conoscere e cui avere accesso, ossia la delicata questione del proprio concepimento. E sarebbe assurdo mentire ai propri figli facendo "come se" non ci fosse stato bisogno di ricorrere ad un dono di gameti. Solo che la conoscenza dei dati anagrafici dei donatori, di fatto, non cambia niente alla storia familiare che è sempre e solo la storia di un desiderio. Un desiderio talmente forte da spingere padre e madre ad avere figli, nonostante la sterilità, nonostante la sofferenza e le difficoltà, nonostante tutto. I gameti, di per sé, non hanno né volto né nome. I gameti sono solo un pezzo di Dna che, con la storia personale di un individuo, non c'entra affatto. Come spiegare altrimenti le frequenti somiglianze tra padri o madri sterili e figli nati con eterologa? Anche i gesti e le espressioni si imparano. E sono il frutto di identificazioni progressive con chi si occupa di noi e ci accudisce. Tutto inizia e finisce con il desiderio. Non solo la storia familiare, ma anche le nostre origini.

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Michela Marzano