E se talvolta dietro l’apparenza di una fedeltà perfetta si nascondesse il tradimento più grande? Ci penso mentre rileggo alcuni brani di uno dei libri più belli scritti dal filosofo danese Søren Kierkegaard, Aut-Aut, e mi incastro sul passaggio in cui parla del tradimento. Perché, per Kierkegaard, i traditori si trovano ovunque. E talvolta è proprio all’interno dei matrimoni più riusciti che prosperano e si moltiplicano. Bisogna stare attenti, però, a non sbagliare il bersaglio, spiega il filosofo.
Visto che i veri traditori non sono quelli che decidono, al momento opportuno, di mettere fine al proprio matrimonio, ma «quegli sposi miserabili che, lamentandosi dell’amore ormai da tempo svanito, restano come stolti nel proprio recinto coniugale«». Ma come? Proprio Kierkegaard? Come fa a parlare di «recinto coniugale» dopo aver scritto che l’unico amore felice è quello della ripetizione? Perché, dopo aver detto più volte che «il vecchio non annoia mai» e che, anzi, rende felici, associa poi il tradimento al matrimonio?
Ma forse sono io che, almeno all’inizio, non voglio capire. Perché Kierkegaard è chiarissimo. E non si sta affatto contraddicendo. Sta solo spiegando che c’è una differenza fondamentale tra l’essere e l’apparire, e che un conto è ripetere gli stessi gesti con la stessa persona perché non c’è motivo di cambiare, perché l’altro lo si ama sempre, anzi, lo si ama sempre di più, visto che è con «lui» o con «lei» che ci sente riconosciuti e accettati e considerati e importanti; in altre parole: unici. Altro conto è ripetere dei gesti ormai stanchi e vuoti di senso, solo perché è così che si fa, è così che gli altri vogliono, è così che immagina che si debba fare.
E allora ripenso a Newland Archer, il protagonista del romanzo di Edith Wharton, L’età dell’innocenza, da cui Scorzese aveva tratto alcuni anni fa un omonimo film. Che sembra incarnare alla lettera il «traditore» di cui ci parla Kierkegaard. Quando Archer decide di rimanere con sua moglie May – e di non seguire così l’amata Ellen – sta infatti obbedendo ciecamente alle regole sociali: non resta con lei perché la ama; resta con lei perché è così che la società gli chiede di fare. Trasformando però il proprio matrimonio in una vera e propria prigione. Certo, tutti lo considerano un marito fedele. Ma fedele a chi? Fedele a che cosa? «Il meglio della vita gli sfugge», scrive alla fine del romanzo E. Wharton facendo chiaramente capire al lettore il proprio punto di vista. Mentre Ellen resterà per sempre ai suoi occhi «l’immagine di tutto ciò di cui era stato privato».
La fedeltà, con le promesse di fedeltà che si possono fare per rispettare regole e aspettative sociali, c’entra poco o niente. Quando si parla dell’amore, la fedeltà affiora nella presenza, in quel miracolo che si verifica ogni qualvolta in cui, stando accanto a un’altra persona, ci rendiamo conto che riusciamo prima di tutto a stare accanto a noi stessi. Fragile, perché mai al riparo dalla delusione, la fedeltà si alimenta allora di vulnerabilità e di attesa: lasciarsi toccare esattamente là dove fa male – perché c’è una frattura che ci attraversa, c’è un vuoto che non si colma, c’è un’assenza che ci perseguita; esattamente come l’altra persona si lascia toccare esattamente laddove è più fragile. Senza che nessuno se ne approfitti. Senza che nessuno si senta prigioniero di uno spazio-tempo carcerario. La fedeltà, allora, non è mai perfetta. Ma è proprio questa assenza di perfezione che esclude poi i tradimenti più grandi.