Ecco come gli italiani lavorano al vaccino contro ebola

Lo racconta Alfredo Nicosia, direttore scientifico e co-fondatore di Okairos, al Festival della scienza di Genova

[caption id="attachment_39077" align="alignnone" width="600"] (immagine: Corbis Images)[/caption]

Il tema del suo incontro è diventato nelle ultime settimane di estrema attualità, e il nome della azienda in cui lavora è stato citato a più riprese dai media. C'è dunque molta attesa, al Festival della Scienza di Genova, in corso in questi giorni, per la conferenza di Alfredo Nicosia, direttore scientifico e co-fondatore di Okairos.

Quest'ultima è una società biotecnologica svizzera (fondata da un gruppo di scienziati italiani, tra cui lo stesso Nicosia, con capitali svizzeri, sede a Basilea, centri di ricerca e produzione fra Napoli e Roma) di cui si è molto parlato in questi giorni perché da lì potrebbe uscire il primo vaccino contro l'ebola. Non è l'unica, di fatto c'è una gara tra ricercatori e governi per arrivare a trovare una soluzione per questa febbre emorragica che sta terrorizzando l'Africa occidentale e che ora incute timore anche nei Paesi industriali avanzati. Si sta lavorando anche sulle cure naturalmente, come spiegato qui, e anche l'Italia sta facendo la sua parte. Tuttavia molta attenzione è concentrata sulla formulazione di vaccini. Per esempio, il governo del Canada, con altri, sta lavorando a un vaccino sperimentale, il VSV-EBOV. La Johnson & Johnson, con la compagnia biotech danese Bavarian Nordic, ne sta sperimentando un altro.

Di fatto però quello messo a punto da Okairos sembra essere in pole position per arrivare a dei risultati concreti in breve tempo. Wired ha fatto qualche domanda a Nicosia - che parlerà a Genova giovedì 30 - sullo stadio di avanzamento della ricerca e sull'ebola in generale.

Partiamo dal vostro vaccino sperimentale, il ChAd3, di cui si è molto parlato in questi giorni. A che punto è la sperimentazione? Quando potrebbe iniziare ad essere usato? Quante dosi avete pianificato finora?

"Il vaccino è pronto per essere già provato in studi clinici, lo abbiamo prodotto quest'anno in un numero di dosi limitate (un paio di migliaia) proprio per i primi studi clinici che sono già iniziati, a settembre negli Usa e a inizio ottobre in UK. Va ricordato che si tratta di un vaccino sperimentale, quindi non ancora approvato da agenzie regolatorie e come tale usabile solo in test clinici. Il nostro piano attuale – concordato con la GlaxoSmithKline, l'industria farmaceutica che l'anno scorso ha acquistato i diritti di proprietà intellettuale sui nostri vaccini – è di produrre, entro la fine di quest'anno, decine di migliaia di dosi, e nell'anno prossimo nel corso di alcuni mesi scalare a centinaia di migliaia di dosi.

"Noi non decidiamo a cosa saranno destinate queste dosi perché lo sviluppo clinico del vaccino è in mano a un consorzio internazionale che fa capo all'Organizzazione Mondiale della Sanità e alla stessa Glaxo, e ad altri attori. Questo consorzio sta lavorando per accelerare il processo di sviluppo, che normalmente impiegherebbe anni, per arrivare già nel 2015 alle prime prove cliniche in Africa. Queste prove inizialmente saranno fatte per testare la sicurezza del vaccino - e confermare il risultato dei primi trial clinici ora in corso - più che la sua efficacia, quindi riguarderanno zone non colpite dall'ebola. Solo dopo questa fase si potrà andare nei tre Paesi piagati dall'epidemia e provare l'efficacia del vaccino, cioè se funziona, a partire da soggetti a rischio come gli operatori sanitari".

Come è organizzato il lavoro ad Okairos su questo vaccino? E come mai vi siete messi, anni fa, a lavorare sul vaccino dell'ebola quando ancora non c'era alcuna emergenza?

"Noi ci occupiamo della produzione delle dosi in due laboratori, uno di ricerca e sviluppo a Napoli e uno che produce materialmente il vaccino a Pomezia, vicino a Roma. Siamo una squadra di una cinquantina di persone impegnate attualmente in una lotta contro il tempo. Okairos è una società biotecnologica nata nel 2007, i suoi fondatori venivano dalla Merck (nota multinazionale del farmaco, ndr), poi l'anno scorso abbiamo ceduto i diritti di sviluppo e commerciali alla Glaxo, per cui continuiamo però a lavorare come società indipendente.

"La decisione di lavorare sull'ebola è collegata all'idea di fondo che ci ha fatto fondare Okairos anni fa, cioè che fosse necessario cambiare il modo di fare i vaccini per quelle malattie gravi contro cui non esiste cura né appunto vaccino come l'hiv, la malaria, l'epatite C e l'ebola".

Quindi come si differenziano i vostri vaccini da quelli tradizionali?

"Un vaccino tradizionale funziona stimolando l'organismo a riconoscere il virus o batterio patogeno, e questa capacità di riconoscimento è basata sulla produzione di anticorpi, cioè di molecole che aggrediscono il patogeno.

"Per esempio un vaccino moderno come quello contro il papilloma utilizza un pezzo del virus per produrre in laboratorio, con tecniche di biologia molecolare, una proteina che, una volta iniettata, pur non facendo male perché è appunto solo un frammento del patogeno, viene riconosciuta dall'organismo, che così forma gli anticorpi. Ma alcune malattie infettive, secondo noi, non si possono aggredire con vaccini tradizionali, perché ci sono virus, batteri o parassiti che hanno strategie sofisticate per sfuggire agli anticorpi. Quindi questi non bastano, ma è necessario stimolare l'organismo a reagire anche in modo diverso, facendogli produrre, come reazione all'aggressione del virus, delle cellule particolari.

"Si tratta dei linfociti T-killer che vanno in circolo nell'organismo e se trovano una cellula infettata da un virus la uccidono. Se si attivano questi T-killer all'inizio dell'infezione, di fatto si uccide la fabbrica dei nuovi virus che producono la malattia. In sostanza il nostro vaccino attiva due livelli di protezione: gli anticorpi e i linfociti T killer".

E come avete ottenuto questo risultato?

"Attraverso un vaccino genetico. I linfociti T-killer si attivano solo contro delle cellule, riconoscono solo cellule, quindi la sfida era trasferire i pezzi di dna di virus dentro una cellula. Lo abbiamo risolto inserendo il dna dell'agente patogeno dentro un altro virus innocuo per l'uomo (un adenovirus delle scimmie), e a quel punto creiamo un vettore che può infettare le cellule umane. La scelta di farlo contro l'ebola è perché si tratta di uno dei virus più aggressivi e dove non c'era una soluzione".

Questa tipologia di vaccini potrebbe essere usata, in prospettiva, anche contro il cancro?

"Esattamente. Oggi c'è uno sforzo per sviluppare vaccini contro il cancro basati proprio sulle cellule T-killer che siano in grado di riconoscere le cellule cancerose".

Tornando all'ebola, cosa è cambiato rispetto a precedenti focolai e casi? Perché oggi appare come una minaccia più grave e quanto è alto il rischio che si diffonda davvero in paesi industriali avanzati?

"Non sono un epidemiologo, a ogni modo oggi non credo che qui da noi il livello di rischio sia elevato. Tuttavia bisogna comunque adottare misure di controllo, come stiamo facendo, per non abbassare la guardia. Quando scoppiò la prima epidemia di ebola nel '76, ma anche successivamente, e fino al 2013, i focolai di infezione furono limitati, e mai era avvenuta una epidemia come quella attuale che supera i 10mila infettati in Africa.

"Avanzo quindi due ipotesi. La prima è legata al fatto che il tasso di mortalità di questo ceppo è del 50 per cento; nelle prime infezioni di ebola si andava oltre l'80 per cento. Ciò potrebbe voler dire che oggi il virus è meno aggressivo di quello originale. Ma paradossalmente se uccide rapidamente il suo ospite, rimane più circoscritto. Un virus che uccide in fretta è sì un pericolo ma lavora quasi contro se stesso. Un tasso di mortalità inferiore vuol dire invece più persone che possono trasmettere il contagio.

"La seconda ipotesi, secondo me più rilevante, è come e dove si è sviluppata l'infezione. Le prime erano in regioni africane isolate e a bassa densità di popolazione, ora sono avvenute in grandi città come Freetown".

C'è molto allarmismo sull'ebola, con il rischio di reazioni irrazionali da parte della popolazione. Sfatiamo qualche mito?

"Per contrarre l'infezione ci deve essere un contatto fisico con fluidi - come sangue, feci, urina - di un organismo infettato. Il virus non vola. Inoltre il trasferimento del virus da una regione endemica a una non endemica difficilmente può avvenire attraverso i migranti, che si imbarcano in lunghi viaggi e che morirebbero prima di arrivare. Il rischio arriva semmai da persone che prendono l'aereo, e ora si stanno adottando molte misure di sicurezza al riguardo".