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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2014 alle ore 11:26.

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Pochi mesi fa è uscito un romanzo di David Shafer che il New York Times ha definito «libro dell'estate»; altri lo hanno paragonato a opere di Thomas Pynchon e Don DeLillo. Si intitola Whisky Tango Foxtrot, ed è un thriller che parla della Rete. La trama è incentrata sul complotto – da parte di un motore di ricerca in combutta con un contractor militare – per appropriarsi dei dati di ogni essere umano e chiedere un pagamento per restituirli. Comprensibilmente, il libro ha avuto molto successo. Alla base di tale successo, oltre a una trama appassionante, sta il fatto che in WTF risuona una paura nota a chiunque usi spesso la Rete. In questo è simile a The Circle, il romanzo in cui Dave Eggers immaginava un totalitarismo digitale in cui la condivisione di ogni dato diventava obbligatoria (se ne era parlato, qui, qualche mese fa).

In un'altra cosa i due libri sono simili. In entrambi i casi, la tecnologia necessaria a mettere in piedi la distopia è in larga parte già esistente. Le telecamere sono un po' più piccole, le reti un po' più veloci, ma in sostanza c'è già tutto. Ciò che cambia sono le istituzioni: lo spazio che viene dato a questa tecnologia nella vita quotidiana, i contesti in cui è concesso, o è ammissibile, usarla. È questa, la paura che risuona. A guardarsi intorno pare una paura sensata. A oggi sono molti i casi in cui un'innovazione possibile non viene implementata perché per ora ci risulterebbe inaccettabile: salta alla mente il riconoscimento facciale, unica opzione per cui Facebook – notoriamente ribaldo nelle questioni di privacy W– richiede un consenso preventivo dell'utente. Ma anche questa reticenza, come quelle di chi alle superiori non limonava al primo appuntamento, è destinata a essere superata col tempo. Come mai? Be', perché è così che vanno le cose. Quando si ragiona del rapporto fra istituzioni e nuove tecnologie, si tende spesso a farlo in termini di superamento – come quando si dice che con le tecnologie di scambio peer-to-peer la nozione di copyright è stata “superata”, e va ripensata o abolita del tutto.

In un certo senso, l'immagine funziona. È evidente che il concetto di diritto d'autore andrà rivisto, se non altro perché de facto è a oggi in larga parte inapplicabile. Ma l'immagine del superamento porta con sé un'idea di inevitabilità: c'è una marcia (la gloriosa marcia del progresso!), e va in una direzione sola, e ci va indipendentemente dalla volontà dei marciatori (noi). In questo periodo, valicato il rigagnolo delle buone maniere e il torrente del copyright, la marcia si trova a dover attraversare il pantano o il fiume o l'oceano in tempesta della privacy. Romanzi come WTF sostengono che forse ci annegheremo.

L'idea di privacy prevede che ogni informazione che mi riguarda sia accessibile solo a un gruppo di persone deciso da me o, in certi casi, dallo Stato. Le mie lettere sono note al destinatario, le mie foto delle vacanze a quelli a cui le infliggo al ritorno; altre cose – come ad esempio le condanne a mio carico – è importante che siano conoscibili da tutti. In apparenza, i problemi di privacy posti da certe nuove tecnologie sono il problema di chi finisce in questi gruppi. Non sempre si sa con chi si sta condividendo qualcosa (solo certi amici, o anche l'azienda che offre la piattaforma? E i suoi inserzionisti?), né quale uso questi sia autorizzato a farne. La soluzione sembra un misto di regolamentazione collettiva e cautela individuale. È questa, ad esempio, la posizione di Massimo Mantellini, uno dei primi esperti di cose di Rete in Italia. Nel suo nuovo libro (Lo sguardo da qui, minimum fax) Mantellini dedica alla privacy sei paginette in cui sostiene che dobbiamo stare attenti a ciò che condividiamo, che è come dire agli abitanti di una città piena di mine anti-uomo di stare attenti a dove mettono i piedi. C'è poi la questione delle violazioni – ci viene ricordata ogni settimana da una notizia diversa, dati bancari sottratti a un videogioco, foto scollacciate sfilate da un account online; anche qui, la soluzione pare chiara, e ha a che fare con l'innovazione tecnologica e, di nuovo, la cautela individuale.

Tutto chiaro? No. Ultimamente sta venendo alla luce un altro problema di privacy, legato non a chi accede a un'informazione ma al perché vi accede e a cosa gli dice, esattamente, questa informazione. Ad esempio: anni fa, in California, si è tenuto un referendum sul matrimonio omosessuale. I nomi di chi faceva una donazione importante a una campagna (pro o contro) sono stati resi pubblici, per rendere chiaro da chi fosse stata finanziata. Per la prima volta, però, queste liste erano accessibili ai motori di ricerca: quindi, cercando il nome di una persona era possibile, se aveva fatto una donazione, conoscerne le opinioni politiche. Similmente, in Italia, la Cassazione ha reso accessibile digitalmente una grande mole di sentenze passate. Queste erano già consultabili nei suoi archivi. Ma ora che sono indicizzate basta cercare un nome – anche di una parte lesa, o di un testimone – e la sentenza si trova immediatamente. Nei casi di malpratica sanitaria – in cui ci si trova a dichiarare problemi di salute personali anche gravi – questo rende tali informazioni immediatamente accessibili attraverso un motore di ricerca. In entrambi i casi, una ricerca online sul conto di una persona fornisce informazioni che non esitiamo a definire sensibili. Vero: da un certo punto di vista, queste informazioni erano già pubbliche (negli archivi della Cassazione, negli uffici elettorali californiani). Ma il modo in cui erano pubblicate limitava drasticamente ciò che avevano da dire. Non essendo indicizzabili, erano accessibili solo a chi sapeva cosa stava cercando, cioè a chi voleva informarsi su una campagna elettorale o su una data sentenza. Una persona curiosa sul mio conto avrebbe potuto, certo, spulciare tutti gli archivi della Cassazione per vedere se saltava fuori il mio nome, ma le proporzioni dell'impresa erano tali da renderla, nella pratica, insensata. Questa limitazione non era semplicemente di natura tecnica, dato che non c'erano metodi di archiviazione migliori. Era legata alla ragione per cui tali informazioni erano state rese pubbliche. I contributi alle campagne politiche non sono pubblicati per sbandierare le posizioni dei singoli donatori, ma perché il processo democratico sia trasparente. Similmente, la pubblicazione delle sentenze è rivolta a professionisti in cerca di giurisprudenza, o a chi, dopo aver scoperto dal casellario giudiziario che qualcuno è stato condannato, vuole conoscerne le motivazioni.

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