Tira proprio una bella aria. Ostia, stabilimento Orsa Maggiore, nove del mattino. Poche decine di metri più a nord arriva e si conclude la Cristoforo Colombo.

La conoscete tutti: è la strada dei film. Aldo Fabrizi in coda per andare al mare, Vittorio Gassman che fa le corna al vecchio nel Sorpasso. Qui non è un granché, di là della strada ci sono palazzine bruttarelle di due piani, la vegetazione è anarchica. Eppure l’Orsa Maggiore è molto frequentato, ogni tanto arrivano starlette, si organizzano feste in spiaggia. Pochi anni fa se lo presero in società Ferdinando Colloca, che era il capo di Casapound, un maresciallo della Marina militare e il genero di Armando Spada dell’ormai letterario clan Spada, il cui ultimo campione ha fracassato il naso a Daniele Piervincenzi della Rai. Poi sono stati tutti condannati, insieme col direttore dell’ufficio tecnico del municipio, Aldo Papalini, per dire il garbo e l’ossequio alla legge con cui misero le mani sull’Orsa Maggiore.

Oggi c’è il sole ma è pur sempre novembre, e sulla Colombo non c’è traffico. Doveva chiamarsi la Via dell’Impero, nei progetti di Benito Mussolini, che volle fare di Ostia il mare di Roma. Verso nord, sul lungomare, si vedono i primi edifici liberty, elegantissimi, alcuni sbrecciati, altri abbandonati con le finestre aperte e il cartello vendesi scolorito. Appartenevano ai ricchi villeggianti d’inizio Novecento, una fila di gioiellini, e poi la fila dietro, a dare la prima idea di impianto ortogonale della città, le vie larghe che si intersecano perpendicolari. Prima di arrivare lì, ci si ferma allo stabilimento Le Dune. Una volta si chiamava Tibidabo. Anche qui non è una meraviglia. Ostia poteva esserla, una meraviglia, e non lo è. Qui ci sono centri commerciali in cemento e vetro, condomini anni Sessanta o Settanta color mattone, uno via l’altro, che intristiscono e si insudiciano più si va nell’entroterra. Alle Dune venivano quelli della Banda della Magliana, quelli veri, il Dandi e il Freddo nella versione delle fiction. Il titolare è Renato Papagni, da secoli capo dei balneari di Ostia e da secoli dentro informative della polizia, ma alla lunga candido come il lino, non fosse per un abuso edilizio: il ristorante dovrebbe essere di sessanta metri ed è di quattrocento.

Fra il liberty è poi spuntato il razionalismo del Ventennio, miracolosamente rispettoso di proporzioni e spazi. La Colonia marina Vittorio Emanuele III, ingigantita dal Duce, è il segno che il mare di Roma era popolare. Su Youtube ci sono i filmati dei bambini che trascorrevano l’estate fra bagni e coreografie militaresche e saluti romani. Davanti c’è proprio l’ufficio tecnico dove fu intercettato il direttore (sempre Papalini) che parlava con Armando Spada. Gli Spada si sono spartiti Ostia con i Fasciani e coi Triassi (ormai declinanti), e Armando diceva ora ci devi dare il chiosco di quelli che abbiamo ammazzato noi. Proprio una bella aria. Sarà che dal mare non ne arriva: la particolarità del lungomare è che non si vede il mare. Quasi mai. Lo chiamano lungomuro. Per chilometri le cancellate, le cabine, i bar e i ristoranti fanno barriera, niente vista, se non si paga non si va in spiaggia. Quando era presidente di circoscrizione, anni Novanta, Angelo Bonelli (oggi leader dei Verdi) scoprì che i titolari degli stabilimenti dovevano dieci miliardi di lire al Comune e, siccome si mise in testa di recuperarli, una sera sul pontile, di fronte a piazza Anco Marzio, il cuore più antico della città, fu fermato da due che si facevano chiamare Bafficchio e er Sorcanera e che gli diedero un coppino, roba da film, «che te la sei presa? Sei il solito cazzaro. Lo sai che ti vogliamo bene». Non li aveva mai visti. Basicchio e er Sorcanera finirono poi ammazzati. E a Bonelli gli hanno bruciato la casa alle tre di notte con venti litri di benzina. Quando gli hanno posato all’uscio una scatola con un fegato e un cuore («il prossimo sarà il tuo», diceva il biglietto) ha deciso di andarsene, al culmine di trent’anni di battaglie.

Rimane invece Federica Angeli, cronista della Repubblica, minacciata di morte e scortata. Potrebbe raccontare quale boss si è incontrato con quale politico in ognuno degli stabilimenti di Ostia. Qui c’è stato anche un incontro fra i balneari e i vertici nazionali del Movimento cinque stelle: «Sono il meglio che c’è a Ostia», dissero. Proprio il meglio. All’estremo nord, poco prima dell’Idroscalo dove morì Pier Paolo Pasolini, c’è il porto. Il presidente fino a l’altroieri era Mauro Balini, titolare dei bagni Plinius e Hakuna Matata, il Kursaal è di sua cugina. La gestione del parcheggio del porto è stata a lungo affidata a uno conosciuto come l’Iracheno, reduce di secondo piano della Banda della Magliana. L’anno scorso a Balini è stato sequestrato tutto: misura preventiva secondo il codice antimafia. Fra le altre cose, Balini si occupava del mantenimento della moglie di Roberto Giordani, detto Cappottone, che gambizzò uno dei Triassi, precisamente Vito, e poi è finito in prigione.

Questo è soltanto il lungomare, un breve, sommario viaggio. Ci si potrebbe addentrare, andare dove Federica Angeli ha assistito a una sparatoria fra gli Spada e i Triassi. Andare dove Paolo Frau, guardaspalle di Danilo Abbrucciati, sempre Banda della Magliana, fu ucciso con due colpi di pistola in testa. Andare nei negozi taglieggiati. Dove si fanno scommesse clandestine. Nei quartieri del racket della case popolari. Ma non serve: si entra in città, in un reticolo orripilante di palazzi ossessivi, scrostati, spazzatura ovunque, stendini sui marciapiedi, in un delirio urbanistico che ha tradito il destino di Ostia, e tanto basta. Doveva essere il mare di Roma, è diventato un sobborgo così brutto che genera soltanto il brutto.

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