Due giorni di eventi, workshop e incontri gratuiti per capire cosa sia realmente l’economia collaborativa. #IoCondivido è il titolo della prima edizione del Festival della Sharing Economy organizzato da Altroconsumo a Milano, nella cornice del Castello Sforzesco, il 24 e il 25 settembre 2016. Più di 100 i relatori italiani e internazionali presenti, tra cui anche il professore Arun Sundararajan, il cui ultimo libro è proprio dedicato al tema dell’economia collaborativa, e la scienziata Elena Cattaneo, oltre ai più importanti operatori del settore, come Airbnb, Blablacar, Uber e Gnammo.

«I trasporti. Senza dubbio, sarà questo il settore in cui la sharing economy inciderà di più nei prossimi dieci anni». Arun Sundararajan, professore alla Stern School of Business della New York University e uno dei massimi esperti al mondo di economia collaborativa, preferisce parlare di crown-based capitalism piuttosto che di sharing economy. «Spesso si dimentica che i servizi che vengono forniti dalla collettività, e non più dalle aziende (crown-based), sono comunque pagati e non offerti a titolo gratuito». Non è quindi un’economia della condivisione in senso stretto, ma una nuova forma di capitalismo in cui le competenze del singolo non vengono più messe a disposizione della società per cui si lavora, ma dei portali online di cui ci si avvale. «Il motivo per cui sarà proprio il settore dei trasporti a dover affrontare le sfide più grandi nei prossimi anni è dovuto al fatto che per i giovani dell’era di Snapchat le macchine non sono più status-symbol. Ciò che conta per loro è se possono fidarsi delle piattaforme digitali. È qui che si gioca la battaglia tra Uber e le case automobilistiche tradizionali».

Cos’è davvero la sharing economy?

«Il crowd-based capitalism è una nuova forma di economia fondata su due fattori: la fiducia e le nuove tecnologie. Se non ci fossero le piattaforme digitali che offrono passaggi in auto ad esempio, l’opzione più conveniente per spostarsi sarebbe ancora comprare una propria automobile. Grazie alle nuove tecnologie non è più così, c’è un modo completamente diverso di possedere le cose, condividendole o prendendole in prestito per un periodo di tempo limitato e in base alle proprie necessità».

Quindi senza le nuove tecnologie non si sarebbe sviluppata l’economia collaborativa?

«No di certo, anche se l’elemento su cui realmente si basa la sharing economy è la fiducia digitale che si ha nei confronti delle piattaforme utilizzate. Nell’arco di una ventina d’anni si è passati dal rapporto uno a uno di acquisto di un prodotto su Ebay ad accettare estranei in casa propria o a salire in auto con sconosciuti. Sono esperienze rischiose che senza la fiducia non potrebbero sussistere».

Come si costruisce questo tipo di apertura nei confronti degli altri?

«In parte è un fatto culturale, gli europei ad esempio sono meno individualisti degli americani e più abituati dal punto di vista storico a condividere con il prossimo. In parte è il risultato delle nuove identità individuali che si sono create con i social network. Prima di far entrare in casa propria uno sconosciuto o prima di salire in auto con lui, oltre a vedere le recensioni degli altri utenti sulla piattaforma, è possibile informarsi su di lui tramite il suo profilo Facebook o Linkedin».

Possiamo definirlo un cambiamento radicale su cosa significa la parola fiducia?

«Certamente. Quello che dobbiamo ricordare è che nel momento in cui creiamo una nuova forma di fiducia diamo vita anche a una nuova forma di economia, la espandiamo enormemente. Nei tempi antichi si poteva commerciare solo con i paesi vicini, poi ci si è allargati fino alle città e ad altri Stati fino ad arrivare in tutto il mondo. Quello che sta accadendo in questi ultimi anni è qualcosa di simile. Stiamo assistendo a una rivoluzione nel modo di fare economia».

Quali sono le persone che traggono più vantaggio dalla sharing economy?

«A parte chi investe grandi quantità di capitali in questi nuovi modelli di business, direi che sono le classi medio-basse a beneficiarne maggiormente. Con la sharing economy aumenta la possibilità di redistribuire maggiormente la ricchezza, migliorando anche la qualità della vita. A San Francisco, per esempio, ho conosciuto un uomo che si era appena comprato una Tesla che poi avrebbe messo in condivisione sui portali online per poter coprire le spese d’acquisto di un’automobile che prima non si sarebbe potuto permettere».

Chi critica la sharing economy dice che non c’è una corretta regolamentazione normativa né una giusta tassazione dei profitti. È così?

«Sono due problemi diversi. Dal punto di vista della tassazione credo che sia necessario crearne una apposita per le piattaforme digitali utilizzate. Sono servizi reali e risorse fisiche quelli che vengono messi a disposizione degli utenti, quindi è giusto tassarli».

E per quanto riguarda le leggi?

«È fondamentale capire che siamo davanti a una rivoluzione da cui l’economia dei singoli Stati non può che trarre beneficio. Non solo per il turismo ma anche per la creazione di nuovi posti di lavoro. I governi dovrebbero aprirsi, e non chiudersi, al modo in cui servizi presenti da secoli vengono offerti alla collettività in modo innovativo. A mio avviso è necessaria una giusta compensazione tra le esigenze della piattaforma e quelle dei legislatori. Solo così le sfide della sharing economy saranno opportunità da cogliere e non battaglie da combattere».

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