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Cultura

Mauro Corona con "Quasi niente" cambia editore dopo la sconfitta al Campiello: "Siate perdenti e farete del bene all'umanità"

Matteo Corona
Matteo Corona 

Tre anni fa, c’eravamo anche noi a Venezia alla serata di gala del Premio Campiello. Al teatro La Fenice tutto era pronto tranne lui, Mauro Corona, lo scalatore-scrittore che neanche in quell’occasione riuscì ad indossare una giacca, figuriamoci lo smoking, preferendo camicia, pantaloni e scarponi da montagna, oltre alla sua immancabile bandana. Passeggiava anche lì, ma su e giù per il foyer, in attesa della diretta, osservato da lontano dalle signore in lungo. Era talmente sicuro di vincere quello che è considerato, a ragione, uno dei premi letterari italiani più prestigiosi, da non lasciar trasparire nessuna agitazione.

Il tutto fino al momento della proclamazione del vincitore - quello vero (Giorgio Fontana con il romanzo Morte di un uomo felice, Sellerio) – quando la delusione sul suo volto ebbe la meglio. Rimase talmente male che la cena organizzata in suo onore dalla Mondadori (la casa editrice che pubblicò il suo libro in concorso, La voce degli uomini freddi) all’Hotel Monaco fu una delle peggiori a cui abbiamo preso parte. Il problema non fu né il cibo né il panorama (la terrazza sul Canal Grande ha sempre il suo perché), ma l’atmosfera che c’era, talmente pesante e triste da far dimenticare tutto il resto.

“Sono un uomo molto acuminato, arrogante, anche maleducato, quindi mi sono fatto un sacco di nemici”, scrive Corona a proposito di quell’esperienza nel suo nuovo libro, Quasi Niente, nelle librerie per Chiarelettere, scritto a quattro mani con il suo amico Luigi Maieron. “Sono stato finalista al Campiello – aggiunge - ci tenevo molto a vincerlo, perché per un ertano, per uno che viene dai boschi e dalla miseria, portare il Campiello al suo paese era una forma di riscatto da una vita di merda”.

Esagerato, penseranno in molti, una reazione eccessiva per una mancata vittoria. L’importante, prima di vincere, non è partecipare? L’autore non la pensa così e dà la colpa “alle aspettative che lo illusero di aver vinto”, definisce il suo fallimento come “una bella vittoria a favore di altri” e la sua sconfitta come un qualcosa “che ha fatto felici altre persone". "Siate sconfitti perché farete stare bene un sacco di gente. I nostri fallimenti arricchiscono gli altri, li fanno stare meglio, quindi bisogna imparare a perdere, a essere sconfitti”, scrive nel libro (di cui qui di seguito pubblichiamo un estratto in esclusiva), dopo aver raccomandato i suoi lettori di non chiamarli fallimenti, ma “opere di carità”. “Perdete, siate perdenti e farete del bene all’umanità. È solo attraverso fallimenti e sconfitte che s’impara a vivere, che si cresce davvero”.

Quasi niente è un memoir speciale che Corona ha scritto assieme a Maieron, un libro che ha il sapore di una fiaba o di più fiabe insieme, da ascoltare davanti ad un fuoco, soprattutto di notte, magari in uno dei tanti posti di montagna tanto amati dai due. Sin dalle prime pagine, dal Col Nudo, la punta più alta delle Prealpi venete, li ascoltiamo ripercorrere insieme le loro vite facendo quello che definiscono “il riassunto di un’esistenza”.

Nelle loro storie c’è la perdita e la fragilità, c’è la pace interiore e la lealtà, il silenzio e il senso del limite. Si parla di cultura - che per Corona oggi “disorienta”, perché “è troppo sofisticata e contorta” – dell’importanza del lavoro manuale e del loro vivere di reazioni a ciò che è capitato. In proposito, Corona ricorda il rapporto che aveva con il padre, un uomo violento che voleva avere ragione su tutto e che non gli perdonò mai di aver rifiutato il lavoro all’Enel per fare lo scrittore.

L’alcolismo, per un periodo, fu la sua soluzione, “una fuga sbagliata dal dolore” ed è a quel punto della lettura che capirete molte cose e arriverete anche voi a giustificare anche quella sua incomprensibile smania di vittoria (del Campiello) e capirete perché lui è così come appare. Tra aneddoti, riflessioni e citazioni, i due grandi amici ci parlano poi di quelli che dalle loro parti sono chiamati “filosofastri”, uomini e donne di cui non si parla nei libri di scuola né si trovano su internet, ma che comunque hanno lasciato messaggi significativi grazie alle loro esperienze, ultimi esempi di un mondo non certo facile, ma da cui si può imparare ancora molto.

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Un estratto dal libro

L’arte di vivere

Bisogna creare spazio. Dentro di noi. Solo così possiamo produrre un cambiamento. I contadini ancora oggi alternano le colture, un anno piantano granoturco, l’anno dopo girasole, il successivo orzo, poi il quarto anno lasciano riposare la terra. Così la preparano, creano lo spazio per il cambiamento. In questo modo la terra è fertile, il raccolto più generoso. Oggi il sole sembra che aiuti i ricordi a venir fuori più limpidi.

M.C. Viviamo dentro schemi rigidi di comportamenti che ci fanno soffrire, creano ansie, stress, attacchi di panico, malesseri incomprensibili. I nostri vecchi erano rimasti ai tempi buoni. Tutti i malanni dell’era moderna sono generati da trappole che ci vengono imposte e che in qualche modo accettiamo di assecondare. La trappola dell’amore, la trappola del desiderio, della ricchezza, del successo. In pratica la trappola dell’apparire: se ci vengono a mancare queste cose cadiamo annientati. Costruiamo troppe sicurezze su palafitte e sabbie mobili. Diventiamo deboli e vulnerabili perché non abbiamo messo in conto la sconfitta, il fallimento, il senso di provvisorietà della vita. C’è sempre questa idea, cioè che bisogna vincere e se non vinci sei finito. La sconfitta è inaccettabile. Ma come nasce l’idea del fallimento? Tutte le parole del globo sono create dall’essere umano e hanno una radice profonda. Se le analizzi e le liberi dall’uso comune che ne facciamo, dalle incrostazioni della vita di ogni giorno, ecco che ci raccontano come siamo. E come siamo diventati. Il fallimento. Anzitutto alla base di questa parola ci sono le aspettative. Ci facciamo delle aspettative rispetto alla nostra vita, alle nostre azioni, e molto spesso, anzi quasi sempre, queste purtroppo non arrivano da noi ma ci vengono imposte dall’esterno. La nostra condizione di esseri umani non è improntata all’azione ma alla reazione. Viviamo così, ci costruiamo così. Ecco le trappole. Da qui nascono il risentimento, l’arroganza, l’istinto di vendetta. Io sono così per reazione a modelli che ho ricevuto da giovane e che ho fatto miei perché li credevo giusti. Siamo diventati tutti una forza esausta, irrazionale e incosciente; nessuno riesce più ad affermare la propria differenza, la propria specificità. Da qui, credo, arriva il fatto che stiamo male.

In realtà dobbiamo capire che nessuno è un fallito. Uno nasce, cresce e muore con quello che gli capita. C’è chi ha la vita più lunga, chi più corta, chi purtroppo l’abbandona appena generato. La vita è il romanzo di ognuno di noi, che si muove tra i due estremi della nascita e della morte. Il fallimento, in tutto questo, io ho imparato a chiamarlo «l’accadimento esistenziale».

Non esiste il fallimento. Esiste la vita, e la vita non ha fallimenti. Se non vogliamo ammettere che nascere è un fallimento. In base al giudizio di altri io posso essere definito un fallito. Ma la vita ha una data di inizio e di fine, e in mezzo quello che capita, diceva Pessoa. È il cinismo degli altri che la colloca nel fallimento. Io, e questo ho capito che può valere per tutti, se imparo che si può vivere non di sola reazione ma tentando di far venir fuori ciò che siamo veramente; se ho la forza di fare questo, ecco che posso ribaltare la condanna del fallimento. Pensa le sconfitte e i fallimenti quanto bene fanno all’umanità. Proviamo a rovesciare questa idea, non solo come provocazione ma proprio come schema mentale che può attivarsi quando vengo annientato da una sconfitta. Vediamo il mio caso. Sono un uomo molto acuminato, arrogante, anche maleducato, quindi mi sono fatto un sacco di nemici. Sono stato finalista al Campiello, uno dei più prestigiosi premi letterari italiani. Almeno qualche secolo fa lo era. Ci tenevo molto a vincerlo perché per un ertano, per uno che viene dai boschi e dalla miseria, portare il Campiello al suo paese era una forma di riscatto da una vita di merda. Ecco le aspettative. E mi avevano quasi illuso che l’avrei vinto. Non l’ho vinto. Sono rimasto male. Poi ho pensato:

«Quanta gente ho fatto star bene con il mio fallimento!». Così ho visto il mio fallimento come una bella vittoria a favore di altri. Prova a pensarci, mi sono detto. Tutti gli invidiosi, i malcontenti, coloro che imputano agli altri i loro fallimenti avranno gongolato e brindato perché ho perso. La mia sconfitta ha fatto felici altre persone. Allora, dico, siate sconfitti perché farete stare bene un sacco di gente. Perdete, siate perdenti e farete del bene all’umanità. Non chiamatele più sconfitte né fallimenti ma opere di carità.

La Rochefoucauld ha scritto una frase azzeccata: «Nelle disgrazie – io dico nella sfiga – dei nostri migliori amici c’è sempre qualcosa che non ci dispiace affatto». I nostri fallimenti arricchiscono gli altri, li fanno stare meglio, quindi bisogna imparare a perdere, a essere sconfitti. Anzi, obbligarci a perdere. Ecco lo schema mentale che possiamo attivare se nella nostra vita siamo annientati da una sconfitta. Poi, certo, ognuno prova a fare bene le cose, ma quello che ama veramente e non quello che è stabilito dalle aspettative e dai desideri che ci arrivano dall’esterno. Non parlo solo di chi vive in città, anche qui tra le nostre montagne avviene lo stesso meccanismo. Hai mai visto un libro di sconfitte sulle scalate? Nessun alpinista, e ne conosco a centinaia, ha scritto delle sue sconfitte, sono tutti arrivati in cima: neve, barbe incrostate di ghiaccio, assideramenti, fatiche, piedi congelati ma alla fine ognuno ce l’ha fatta. Per questo mi piacerebbe leggere un libro di scalate con il titolo: Non sono arrivato in cima. Non ce l’ho fatta! È solo attraverso fallimenti e sconfitte che s’impara a vivere, che si cresce davvero. Al mio paese dicono: «Quando l’acqua tocca il culo s’impara a nuotare», altrimenti anneghi. Ho imparato da vecchio a non vantarmi di nulla, neanche delle cime scalate. Oggi sento di essere stato un esibizionista ma leale. Questa parola per me è fondamentale: dobbiamo essere leali, pur con i nostri mille difetti. Mi gratifica la certezza di non aver perso molto tempo nella vita. Ovviamente qui sta anche un rimorso, perché ho capito che per far felice te stesso devi far star male gli altri. Siate leali, non raccontatevela. Se tu persegui non dico la felicità, che è una parolona abusata, ma la tranquillità, la contentezza, qualcun altro starà male per questo. Da buon egoista ma uomo leale so che esistono persone eccezionali che si sacrificano per gli altri e possono essere uno straordinario esempio nella società; poi c’è chi scrive il romanzo della vita a modo suo perché sa che ha un’occasione sola, non c’è una ristampa: ecco l’egoista. Un egoista leale sa ammettere che perseguendo il proprio benessere provoca malessere agli altri. Sei sul divano che leggi un libro, la stufa accesa, un bicchiere di vino e ti arriva una telefonata di amici che ti invitano a cena. Se rispondi di no perché stai bene dove sei in quel momento, ecco che gli altri metteranno il muso. La persona leale non è tollerata. «Non me ne frega niente di venire a cena perché sto bene qui!» dico. E gli altri si sentono offesi. Solo un vero amico può capire: «Sta bene lì, lo lascio stare». Il tuo star bene, cercare una gioia, una contentezza, è direttamente proporzionale al disappunto che crei negli altri. Hai una figlia, le vuoi bene, l’hai creata, educata, lei si sposa e va a vivere altrove, lontano da te, per tentare la sua felicità lei ti crea un dolore. Se è leale va avanti lo stesso, vive la sua vita consapevole di questo meccanismo. Altrimenti si arresta, non vuole farti danno, non perché sia eroica, forse solo perché non ha coraggio. O forse perché ti vuol bene. Bisogna avere il coraggio di essere leali con se stessi e di conseguenza con gli altri. Questo l’ho capito da bambino. Non c’è una gioia tua se non c’è il dramma negli altri. Non posso avere nulla se non a scapito di altri, e a me non piace far male agli altri. Se devo rintracciare una causa della mia vita sciagurata credo sia proprio questa. Ora sto meglio, mi sono pacificato un poco con il mio pensiero. Per questo dico siate perdenti ma leali con voi stessi.

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