Alessandro Leogrande concepisce il lavoro della scrittura come una lenta ricomposizione di frammenti sconnessi, quanti ne servono per ricostruire un forte effetto di realtà con una idea massimalista di una narrazione della moltitudine. La frontiera, che chiude una trilogia iniziata con Uomini e caporali e proseguita con Il naufragio, si muove sullo stesso campo dei libri precedenti, con una coerenza tematica e stilistica molto rari negli scrittori della sua generazione, più attratti da una fiction sfibrata, logorata persino da un narcisismo stilistico. Questo libro, invece, sta dentro il proprio tempo come pochi, sceglie una forma, una modalità di racconto, che è quella più democratica di tutte, il reportage narrativo.
Leogrande tesse, monta e rimonta, intreccia e ricuce le tante storie della Storia tragica di un mondo altro che l’Occidente per tanti anni non ha voluto vedere, e di cui si è accorto solo quando gli aerei selvaggi sfondavano le Torri Gemelle, o il grand guignol dell’Isis scatenava il suo terrore su Parigi. Il pretesto, o anche il prototipo degli uomini e delle donne che l’autore narratore incontra quando ragazzo s’affaccia negli ambienti della sinistra romana è Shorsh, un profugo kurdo sfuggito nel 1997 dal regime di Saddam Hussein, che ritroverà nella Bolzano di Alexander Langer (la città italiana che simbolicamente rappresenta più di tutte l’idea di vivere il confine), uno dei molti che attraverso la loro testimonianza compiono nel racconto un doppio viaggio. Doppio perché appunto «la frontiera», questo luogo geografico, geopolitico, che è anche un immaginario mobile, sta in mezzo a due opposte traiettorie di due mondi nettamente separati, l’Occidente opulento e consumistico del parossismo capitalistico, e un Sud del mondo povero, dilaniato dai conflitti bellici e senza democrazia.

Questo luogo eccentrico, che nel titolo evoca gli spazi sterminati della fuga e del west, i vagabondi raccontati da Jack London come la Grande depressione, in realtà altro non è, così la descrive l’autore, che «una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la frontiera». I raccontatori che incontra nei modi kapuscinskiani, perché non si limita a descrivere ma vuole spiegare, ognuno dei quali illumina una geografia e vive sulla «linea d’ombra» di Conrad, sono il giovane somalo Hamid, il camerunense Yvan Sagnet, l’enigmatico Don Mussie, l’eritreo in fuga Syoum, scampato al naufragio di Lampedusa. Sì, perché quel tragico fatto è anche l’ossessione etica ma anche l’immaginario cupo che percorrono tutto questo libro che racconta innanzitutto il nuovo «popolo degli abissi» e le sue tante avventure, il più crudelmente romanzesco che esista.

Da una parte un mondo e popoli sempre più tecnologici dell’artificiale, e dall’altro quelli corporali di un mondo naturale vissuto nelle terre arse, nei deserti e, naturalmente, nei tanti mari e barche ai quali hanno affidano i propri destini. Per capire il perché di questi viaggi della speranza, ciò che l’informazione manipolata non ci permette di vedere, di sapere, l’autore ricostruisce narrativamente e nel modo più empatico «il contesto», ristabilendo un rapporto con le antropologie e la Storia, l’oggetto vero della rimozione, quello che dà senso e ci fa capire la scelta, spesso disperata, del viaggio. Anche Leogrande compie un vero e proprio attraversamento narrativo, perché queste vite di confine per esistere avevano «bisogno di incontrare un altro viaggiatore. Perché solo un altro viaggiatore può capire il peso delle parole che pronunceranno», spiega in un capitolo di intenti. La scrittura che il migliore dei nostri reporter utilizza in questo libro sullo stato del mondo è oggettiva, volutamente ed eticamente dimessa, evita e scansa la narrazione compiaciuta, non cede alla trappola della spettacolarizzazione del dolore. Invece recupera la pietas, ne fa uno stile, ridà dignità a queste vite dei molti dannati della terra, li accompagna con tenerezza, si mette in ascolto con quella «responsabilità fraterna» di cui parlò con severo ammonimento Papa Bergoglio durante il primo viaggio del suo pontificato a Lampedusa.