editorialeL’EDITORIALE

L’Italia non si rassegni al populismo e all’elitismo

di Sergio Fabbrini

(Imagoeconomica)

2' di lettura

Vista dall’esterno (e non solo dall’estero), la politica italiana è poco o punto comprensibile. Per mesi si è discusso di elezioni anticipate, senza sapere perché occorreva anticiparle. Nelle democrazie parlamentari (basti vedere il Regno Unito), le elezioni anticipate non sono una patologia. Tuttavia debbono avere una giustificazione.

Nel nostro caso, tale giustificazione non è mai stata fornita. Alle domande del direttore di questo giornale (“elezioni anticipate perché e per fare cosa?”), i leader dei nostri maggiori partiti hanno risposto parlando di tutto, ma non di come affrontare il problema dei problemi, la riduzione del debito pubblico. Per mesi si è discusso della riforma elettorale. Un accordo viene trovato, tra i maggiori partiti, intorno ad un modello proporzionale. Si spera che ciò possa condurre ad una qualche pacificazione tra di essi. Poi, su un emendamento parlamentare del tutto eccentrico, l’accordo tra quei partiti salta e la legittimazione reciproca si trasforma in reciproci insulti. Così, dopo 25 anni, il Paese continua ad essere senza un sistema elettorale scelto consensualmente dal Parlamento. E, come se non bastasse, il dibattito partitico continua ad essere scadenzato dai due leader che, 25 anni fa, avevano inaugurato la cosiddetta Seconda repubblica. A sua volta, il governo è costretto a navigare a vista. Ieri sono stati i parlamentari della sinistra radicale che non hanno partecipato al voto sulla mini-manovra finanziaria, domani saranno i parlamentari dei partiti di centro che alzeranno la voce contro altre scelte indesiderate. Ma naviga a vista anche l’opposizione. Il suo maggiore partito, il Movimento 5 Stelle, un giorno dichiara di essere sensibile all’invito di Papa Francesco di accogliere i migranti, il giorno dopo denuncia l’arrivo di questi ultimi come una vera e propria calamità nazionale da risolvere rimandandoli indietro.

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Più che un sistema politico, il nostro è una palude partitica, dove tutti si muovono stando sempre fermi. Riflettendo su un’esperienza analoga (quella della Quarta Repubblica francese degli anni Cinquanta del secolo scorso), Maurice Duverger rilevò come la palude costituisca l’humus ideale di una politica che ha perso il senso della propria missione.

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