L’ombra plurale

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Una città dello stato di São Paulo, una coppia di artisti posseduti dalla passione per l’arte condivisa, un gruppo di ‘ombromani’ formato da registi, performer, animatori, studenti, studiosi accademici e non: è la comunità che a Taubaté si è aggregata intorno all’ ‘ombra’ di un teatro che deve ancora trovare la sua strada, e che di questo ricercare fa l’elemento propulsore di un confronto vitale, una condizione di fertile incertezza.

FIS, il Festival internazionale di Teatro d’Ombre alla sua quarta edizione, è diretto da Ronaldo Robles e Silvia Godoy, fondatori della Compagnia Quase Cinema che nelle tecniche e nelle poetiche dell’ombra trova il linguaggio più consono per dare forma a una passione che si radica nelle arti visive e nel cinema.

Una direzione artistica eticamente responsabile, che coniuga il progetto di diffusione del genere teatrale delle ombre (peraltro molto più esteso in Brasile che da noi) al programma di decentramento culturale: nonostante le ‘scomodità’ non rinuncia a portare il teatro (spettacoli e laboratori) nelle piazze e nelle scuole rurali di paesi piccoli e piccolissimi, ma anche tra i giovani delle scuole di formazione artistica della città. Impegno della manifestazione è anche mettere in relazione la ricerca artistica e quella scientifica, la formazione e la riflessione, la condivisione e l’accento sulle differenze (oltre ai numerosi momenti di riflessione animatisi spontaneamente nel corso delle giornate, un seminario ha accompagnato il festival nelle ultime due serate).

La ‘periferia’ abitata dal Teatro d’Ombre nel contesto del mondo teatrale, sostiene con passione Ronaldo Robles, è anche periferia geografica che si vuole abitare fisicamente.

Non è semplice offrire uno sguardo d’insieme su una proposta che ha come prima caratteristica quella di dare voce alle differenze. Ma l’orchestrazione di questo coro polifonico è condotta con sensibilità e fa emergere alcuni tratti che sono utili punti di osservazione.

La questione che si pone come ineludibile dal punto di vista formale è quella dell’opzione tra una dominante bidimensionale dell’ombra in scena e la sua più marcata presenza tridimensionale, ovvero tra una dimensione ‘parente’ dell’immagine cinematografica e viceversa il prendere corpo dell’ombra, sostanziando della sua materialità scenografia, corpi e oggetti. Ci si chiede se non si tratti forse di una questione più mentale che reale. La ‘fenomenologia dell’ombra’, della quale il festival offre un piccolo saggio, nella sua molteplicità mostra come per questi artisti non si tratti mai di proiettare immagini in una dimensione di lontananza, tantomeno di immagini dimentiche della proprietà materica dell’ombra. L’urgenza, pur nella estrema diversità degli esiti e con differente consapevolezza della complessità di questo mezzo, è sempre quella di mettere in gioco corpi e di tras-figurarli, di metamorfosarli in figure.

Per molti di questi artisti il cinema è un riferimento forte non solo per la sua naturale costituzione immateriale, ma soprattutto in quanto serbatoio di citazioni e di procedimenti. Nella presentazione del programma si legge che il Teatro d’Ombre è un «cinema primitivo» o un «cinema vivo». Se ne potrebbe discutere. Ma il senso è in fondo simile a quanto scriveva Mario Ricci negli anni Sessanta a proposito del «cinema a quattro dimensioni», cioè lo slittamento della proiezione entro il codice propriamente teatrale.

Se la differenza più vistosa, della quale chiunque è necessariamente consapevole, è la presenza viva dei corpi dei performer nella tridimensionalità dello spazio scenico, l’altro tratto percepibile è l’accento sulla presenzialità del processo, il fluire nel formarsi delle figure: il percorso e le metamorfosi che portano dal corpo e dagli oggetti (siano essi sagome, performer, le stesse lampade) alle presenza assente dell’ombra, impalpabile eppur plasmabile. Un processo che mantiene tutte le incertezze, gli spostamenti, le vitali imperfezioni dell’accadimento performativo. E che non può conoscere arresti né ripetizione dell’identico.

Tale processo è particolarmente sensibile in Um encanto em Nagalândia (Cia Teatral Entreaberta, Florianopolis), ispirato a una leggenda indiana che racconta dell’amore tra una principessa e un albero, di inauditi linguaggi e di miti d’origine.

 Um encanto em Nagalândia - atrizes Fabiana Lazzari e Tuany Fagundes - ENTREABERTA CIA TEATRAL - foto Jucca Rodrigues

La poetica e puntuale orchestrazione e interazione tra corpi delle attrici, profondità dello spazio dell’ombra, suoni, registri vocali e oscurità, offrono alla vista e all’udito degli spettatori il processo stesso della metamorfosi tra diverse condizioni dell’essere, motore di drammaturgia visiva e sonora.

 Urubus no ar - Cia Quase cinema -

“Filmica” è invece la cellula drammaturgica di Urubus no ar (Cia Quase Cinema, Taubaté): qui è l’immaginario del film noir a offrire le costanti visive e sonore (la veneziana diaframma dello sguardo, la nuvola di fumo dell’immancabile sigaretta, una vertigine visiva creata da una corsa in auto nel paesaggio metropolitano, rigorosamente in bianco e nero). L’ombra che sostanzia la tecnica scenica agisce sul piano narrativo, nella forma della citazione evocativa.

 Tutu – Lichtbende - foto Rob Logister

In questo riferirsi al cinema rientra anche la reinvenzione della Lanterna magica, assunta in modo programmatico al centro della ricerca dalla compagnia olandese Lichtbende (Tutu). Lanterne magiche del nostro tempo, con un chiaro debito alle avanguardie nella sperimentazione dei materiali (i più eterogenei e poetici, miniature di assemblaggi inserite nei vetrini), che sfruttano l’immaginario del mondo della danza - facendo apparire, per esempio, una potente Mary Wigman spettrale con mani radiografate. Lanterne magiche che fanno tutt’uno con il materiale drammaturgico, così come lo fanno la musica, gli strumenti e i musicisti che animano la scena.

 O telescopio do doutor Fabularis - Fabularis Teatro -

La seduzione dello strumento di visione conosce una singolare declinazione ne O telescópio do Doutor Fabularis (Fabularis Teatro, Buenos Aires): una finestra ‘cosmica’ che si anima nel mezzo di una piazza, dove a turno ogni singolo spettatore viene dotato di cuffie per il suono e accompagnato da un singolare cosmonauta nel viaggio contemplativo di un teatro d’ombre ‘microscopico (e microcosmico).

Se molteplici sono le modalità nel concepire lo spazio, si possono individuare due diverse inclinazioni: quella che lavora su uno spazio condiviso, fino a portare lo spettatore il più possibile vicino, persino dentro la cornice del dispositivo (cosa che parrebbe inconsueta per un genere che esige precise distanze, nell’azione e nella visione); quella che mantiene la separazione del teatro all’italiana, dove tutto ciò che pertiene al gioco delle ombre (pur nell’interazione con corpi e oggetti) viene mantenuto ad una certa distanza.

Forse il nostro è uno sguardo ‘viziato’ dalla lontananza, di chi, straniero, rimane impressionato dalla naturalezza della convivencia (progettata e vissuta: pensiamo ai luoghi ideati da Lina Bo Bardi a Sao Paulo, visti poco prima di arrivare a Taubaté): ma l’impressione è che la tradizione ‘all’italiana’ qui sia proprio lontana, ammirata e studiata, ma lasciata alla sua epoca…

La condizione di uno spazio vissuto e condiviso si fa sentire a vari livelli. Gli allestimenti lo reinventano ad ogni occasione. In Sobre o voo (Cia Pavio de Abajour, São Paulo) l’aspirazione al volo si dispiega intorno all’evocazione dell’infanzia del pioniere dell’aviazione franco-brasiliano Alberto Santos-Dumont: volatili di varie specie si metamorfosano in primordiali mezzi volanti dal sapore dadaista; gli oggetti incarnano l’immaginazione del giovane inventore migrando dal disegno alle proiezioni alle silhouette, fino a comporre una giostra di oggetti assemblati ‘aeromorfi’: lo spazio dilatato della scena sconfina verso un ideale orizzonte, in un volo finale di ombre di aeroplani in sala.

 Ananse e o baú de histórias - Coletivo Sombrero Andante

Questo motivo del volo e dello slancio verso il celeste dal punto di vista drammaturgico sembra un’attrazione fatale per i cultori delle ombre: cosmo, cielo, mondi ‘altri’ costituiscono il filo ricorrente. Un tela verso il cielo tesse l’uomo-ragno in Ananse e o baú de histórias, nato da una ricerca intorno alle tradizioni culturali afrobrasiliane (Coletivo cênico sombrero andante, gruppo nato in seno ad un laboratorio dell’Università UFRJ di Rio de Janeiro).

Così come una dimensione aerea e sconfinata percorrono gli uccelli di Pássaros (da una riduzione per bambini del testo di Aristofane) dove la giovane Marie O Donath (Mottili Theater) è la donna che con una valigia piena di luce e di ombra guida lo spettatore attraverso una rivisitazione della commedia antica animando bellissime silhouettes dal disegno essenziale e dinamico. Ma in fondo ad una lingua celeste aspirano anche le figure tratte dal racconto in Piripù di Emanuela Bussolati in Tararì Tararera, dotate di idioma immaginario ed evocativo; la compagnia è Juji, unico gruppo italiano presente (Paola Camerone e Federica Ferrari, che nel corso del Festival ha tenuto un laboratorio).

Quando non è il cielo ad attrarre le figure, lo fa il fondo marino: nel O Príncipe Caranguejo (Cia Faísca, Sao Paulo) una principessa innamorata dei pesci va alla scoperta dell’ignoto immergendosi nell’acquario più grande del mondo. Così il mare in tempesta è una sorta di liquido amniotico della curiosa ‘bolla luminosa’ entro cui si dà vita alle ombre di O Marujo e a tempestade (Cia Teatro Lumbra, Porto Alegre). Ma la leggenda del marinaio è pretesto per il dispositivo, una bolla in tessuto gonfiata e installata in spazi urbani, all’interno della quale agiscono i manipolatori; parte integrante (e interessante) dello spettacolo è il momento in cui gli spettatori vengono invitati ad entrarvi e a cimentarsi con le ombre, proprie e altrui.

Staccare l’ombra da terra? Potremmo anche notare che in generale il desiderio sembra muoversi in una doppia direzione: il tentativo di definire la specificità del genere del Teatro d’Ombre da un lato e la tentazione (più che apprezzabile) di uscire dal dispositivo, a confrontarsi con modalità che non sono di questa tradizione (per quanto recente, almeno nella sua declinazione contemporanea).

 On, o equilibrista - Luz micro y punto - foto Fredy Fernández

Se grande ombrello per tutti sembra essere la narrazione (quasi sempre si parte da racconti, leggende, favole), On, o equilibrista (Luz, Micro y Punto, Spagna) è uno spettacolo che colpisce per la misurata sapienza nella coesione dei mezzi scenici. Una poesia della fragilità ‘suonata’ sul filo dell’incerto equilibrio tra dolcezza e crudeltà: in una scena modulata sulla luce e sull’ombra, un punto rosso centro dell’azione e del desiderio, si materializza in un reale cuore di gelatina rossa, gustato sensualmente, poi distrutto da una mano guantata, infine offerto alla degustazione degli spettatori.

C’è ancora molta ricerca da compiere in questo territorio dell’ombra, che tra l’altro da una ventina d’anni (ma con un’accelerazione degna di nota in tempi recenti) è al centro dell’attenzione di tanti artisti visivi. In generale l’impressione è che vi sia ancora troppa poca fiducia nel potere di questo linguaggio straordinario, generando spesso un eccesso di impiego degli altri mezzi – parola in primis.

Il Festival Internacional do Teatro de Sombras costituisce oggi, e si spera continuerà ad essere in futuro, una magnifica “oficina” – magari (auspicabilmente, anche secondo le intenzioni dei curatori) rimanendo tale, senza fissare modelli o congelare approdi.

 

Sito festival

http://www.ciaquasecinema.com/programacao-fis-2017

FIS Festival Internacional de Teatro de Sombras

Taubaté (São Paulo), 28 aprile-5 maggio 2017

Direzione artistica Ronaldo Robles E Silvia Godoy – Compagnia Quase Cinema