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Economia e politica in Cina dopo il crollo delle Borse

Le turbolenze sui mercati finanziari di Shanghai e Shenzen erano ampiamente prevedibili. Il governo ora può trarne una lezione o perseverare nei suoi errori.
Pubblicato il Aggiornato il
[Carta di Laura Canali]
[Carta di Laura Canali] 

Il parametro cui si fa generalmente ricorso per la misura della crescita della ricchezza di un paese è il prodotto interno lordo (pil) inteso come il valore di mercato dei beni e dei servizi finali prodotti all’interno di un paese in un determinato periodo.

Ideato negli anni Trenta del secolo scorso dallo statunitense Simon Kuznets, poi insignito del premio Nobel, il prodotto interno lordo è una delle basi del sistema di contabilità nazionale adottato dopo gli accordi di Bretton Woods da quasi tutti i paesi del mondo, particolarmente dai membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Nella sua forma algebrica semplificata, il prodotto interno lordo è composto dalla spesa in consumi (famiglie), dagli investimenti (imprese), dagli acquisti pubblici di beni e servizi (settore pubblico), dalle esportazioni nette (settore estero).

Qualunque paese che per venti o trent’anni accresce il proprio benessere economico sviluppando solo una o due delle voci del prodotto interno lordo sarà un paese zoppo.

Qualunque occidentale che abita o abbia vissuto sufficientemente a lungo in Cina sarà consapevole del grande contrasto tra la marea di prodotti cinesi che a basso costo sommerge gli scaffali dei nostri negozi e la grandissima propensione delle famiglie cinesi al risparmio anziché al consumo, dettata dall’assenza di un vero sistema di sicurezza sociale, come pure delle migliaia di edifici di quaranta piani e più disseminati su tutto il territorio, da Shenyang a Kunming, da Guangzhou a Urumqi, senza passare per le megalopoli di Pechino e Shanghai. Edifici completamente disabitati o quasi, costruiti per pura speculazione con denaro preso a prestito dalle famiglie.

Se i consumi interni continuano a non decollare e se il governo cinese è riuscito con una delle sue usuali manovre impositive e intimidatorie a spegnere la miccia della bolla immobiliare innescatasi circa un anno fa, il risparmio delle famiglie deve pur indirizzarsi verso altre forme di speculazione. Così, spinto dalla propaganda dei media governativi, il risparmiatore cinese ha iniziato a riversare il proprio risparmio sul mercato azionario interno e a prendere in prestito denaro per l’acquisto di azioni (margin lending). Una pratica fino a poco fa concessa solo in pochissimi casi, ma che ha aiutato anche le grosse società statali a risistemare il proprio stato patrimoniale.

Il fenomeno, già noto come una delle cause del crollo della borsa di New York nel 1929, si è diffuso a macchia d’olio. In quasi un anno la borsa di Shanghai è cresciuta del 150%; una crescita dovuta solo all'eccessiva domanda e in piena controtendenza con l’andamento dell’economia cinese, che nell’ultimo anno è ufficialmente cresciuta del 7% - valore necessario a mantenere un tasso di occupazione che preservi la stabilità sociale, valore che con buona probabilità è stato pari a un 4-5% reale.

Come nella stretta creditizia del 2007-12, i profitti delle azioni generati dall’onda degli acquisti speculativi sono stati in gran parte utilizzati per generare altro debito, oggi stimato a 970 miliardi di dollari, ovvero il 9% circa del pil cinese. A differenza di altri paesi, gli acquirenti cinesi non sono istituti finanziari o società di gestione del risparmio, bensì singoli individui (pari all’80% dell’intero azionariato, valore di molto superiore a quello dei mercati americani ed europei) che hanno nella maggioranza dei casi poca o alcuna conoscenza dei prodotti azionari.

Come giocatori d’azzardo, gli investitori cinesi comprano immediatamente qualunque titolo si muova verso l’alto e vendono con altrettanta velocità qualunque titolo si muova verso il basso, soprattutto se il loro valore scende sotto la soglia che permette di ripagare il debito contratto, innescando quella spirale di vendite solitamente animata da panico. Ed è proprio quello che deve essere successo dopo il picco del 12 giugno scorso.

Raggiunte le dimensioni di una bolla speculativa, una mancanza di confidenza nei cosiddetti fondamentali del mercato azionario ha generato un’ondata di vendite che nell’arco di tre-quattro settimane ha generato una perdita del 30% pari a circa 3500 miliardi di euro - come se le borse di Amsterdam, Bruxelles, Lisbona e Parigi (Euronext) fossero letteralmente scomparse nel nulla.

Eppure il valore dell’azionariato cinese rimane in crescita (+95% rispetto a un anno fa) ed è pari a circa un terzo dell’intero prodotto interno lordo, mentre nelle economie sviluppate ne rappresenta la quasi totalità. Il valore del debito per l’acquisto di azioni è valutato a circa il 6% delle disponibilità dell’intero settore bancario cinese.

Tuttavia, la reazione di Pechino è stata spropositata: a quasi la metà delle circa tremila società quotate a Shanghai e Shenzen è stata imposta la sospensione degli scambi; congelando in un istante 2600 miliardi di euro, a una ventina delle più grosse società di intermediazione è stato impedito di acquistare azioni e agli azionisti con un valore delle partecipazioni superiore al 5% sono state bloccate le vendite per i prossimi sei mesi.

È mancato poco che il governatore Zhou Xiaochuan profferisse l’eroica frase «whatever it takes», esternata naturalmente con caratteristiche cinesi, così com’è - formalmente - l’economia di mercato nazionale. Molto strano per un governo che solo un paio di anni fa dichiarava che le forze di mercato avrebbero giocato un ruolo decisivo nell’allocazione dei capitali.

Dare la responsabilità ai soliti stranieri, che si stima posseggano solo l’1% del mercato azionario e con forti restrizioni sulle transazioni, sembra non bastare. Dev'esserci qualcosa di politico che turba la quiete del presidente Xi e dei suoi collaboratori. Il movimento di capitali sulle piazze borsistiche avviene secondo transazioni che durano solo una frazione di secondo, totalmente illiquide, inafferrabili e diverse dalle materie di cui sono fatti vetro, acciaio e calcestruzzo. Quando nei mesi scorsi il mercato azionario cresceva vertiginosamente, la propaganda di partito acclamava la direzione del nuovo governo e delle sue riforme economiche come unica ragione della nuova floridità; il repentino cambio di rotta mette a dura prova la capacità di guida dei nuovi mandarini.

Sebbene la Cina non sia una democrazia, il governo, pur senza sentirsi obbligato a rendere conto di alcunché, rimane sensibile agli umori dell’opinione pubblica e alla sua reputazione. Soprattutto rimane sensibile alla rabbia di 90 milioni di famiglie che, dopo essere state incoraggiate dallo stesso governo, potrebbero ritrovarsi sul lastrico.

L’inesperienza, l’imperizia e la paura dei tecnocrati di Pechino si sono mostrate al mondo in tutta la loro pienezza. Lo scivolone delle Borse è solo uno dei tanti sintomi della debolezza del socialismo con caratteristiche cinesi, non la causa. La Cina sta attraversando un momento di forte cambiamento che il regime conservatore ostacola o vuole modificare secondo i suoi tempi, ma l’economia è espressione della società e come tale richiede correzioni e aggiustamenti.

L’economia cinese da troppi decenni è sbilanciata sugli investimenti, anche quelli non necessari, e sulle esportazioni.

In uno scenario ottimistico, il presidente Xi Jinping deciderà di bilanciare la società equilibrando le esportazioni con i consumi interni e gli investimenti con la spesa pubblica in sanità, istruzione e previdenza sociale. In uno scenario pessimistico vedremo il solito circolo ripetersi: lo yuan si risvaluta e l’Occidente è risommerso da scarpe di finta pelle al cromo esavalente.

Per approfondire: Moneta e impero