Milano, 2 marzo 2015 - 09:22

Crespi, l’Expo e l’anima da ritrovare

Il Villaggio operaio inserito nell’Unesco Tour. La bellezza di un’idea per quanto decaduta

di Davide Ferrario

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La Regione Lombardia ha deciso di «spingere» il Villaggio operaio di Crespi d’Adda come attrattiva turistico-culturale in vista dell’Expo. È un’idea buona e giusta. Esiste una nicchia di stranieri (e non solo) che è più interessata alla storia che all’arte. Penso a uno come John Sayles, lo sceneggiatore di film come «Apollo 13» e «Piranha», ospite del Bergamo Film Meeting di tanti anni fa. Uno che non si commuoveva molto a vedere chiese e monumenti, gettando gli organizzatori nello sconforto riguardo al modo di intrattenerlo. Mi venne l’idea di portarlo a Crespi, sapendo quanto fosse appassionato di storia moderna. Ci mancò poco che le lacrime non versate davanti alle Madonne gli spuntassero in riva all’Adda. Perché Crespi ha quel fascino lì: il fascino della sospensione temporale, la suggestione che, passato il cartello che indica l’entrata al paese, il tempo si sia fermato. Così, mentre mi avvicino al ponte dell’autostrada tornando verso Bergamo, penso che è un bel po’ che a Crespi non ci passo. Senza rifletterci metto la freccia, imbocco l’uscita di Capriate e scendo giù.

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A ora di pranzo non c’è modo migliore di armonizzarsi con la vita di paese che infilarsi in un bar. A Crespi non c’è l’imbarazzo della scelta: di aperto ce n’è uno solo ed entrarci procura subito una di quelle esperienze di salto indietro nel tempo di cui parlavo. Lo stile del locale è rimasto immutato dalla fine degli Anni ‘70. Ma, soprattutto, sembrano appartenere a quell’epoca gli avventori: o meglio, a quella categoria metafisica che è il giocatore di carte da bar. Sono 4, seduti al tavolo davanti al bancone, occupati in una partita di scopa che si intuisce rituale e forse mai davvero conclusa. Nel tempo che mi ci vuole a consumare una birra e un ottimo panino fatto al momento da una gentile e bella barista, la partita alterna silenzi carichi di attese a scoppi di feroci discussioni in dialetto a fine mano, nelle quali si nota la ben conosciuta propensione della nostra gente a infamare con veemenza quel dio che la domenica venera in chiesa con altrettanta convinzione. Insomma, volano i porconi. In un angolo, ignari, li osservano due turisti inglesi, a riprova che gli anglosassoni in particolare sono attratti da Crespi e dalla storia che racconta.

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L’«eccezione» di Crespi è proprio quella di essere un luogo ancora vissuto, non un semplice museo storico in scala 1:1, come per esempio San Leucio a Caserta. Ma i 450 abitanti registrati all’anagrafe e gli occasionali visitatori forniscono al paese un tipo di vita molto particolare. Sotto i muri degli edifici di fine ‘800 (il «castello» padronale, la fabbrica, le casette operaie e le ville dei dirigenti), sembra di essere non solo alla fine del tempo, per così dire, ma anche alla fine dello spazio. Crespi è l’ultimo lembo dell’Isola, si insinua alla confluenza di Brembo e Adda come una sorta di finis terrae dominato, molto appropriatamente, dal fantastico cimitero in stile eclettico. Chi cammina per le strade sostanzialmente immutate da quasi 150 anni vive un’esperienza non solo storica, ma esistenziale. Così come se ti metti a camminare su un parallelo terrestre finisci per tornare da dove sei partito, altrettanto senti che il passo indietro che fai immergendoti nella vita di fine ‘800 ti riporta al tuo essere vivo qui e adesso. Sarà la giornata di fine febbraio che immerge tutto in una luce grigia diffusa, ma all’improvviso ho come la sensazione di essere dentro una di quelle palle di vetro-souvenir dove, se le scuoti con la mano, nevica. Uno viene qui per vedere le testimonianze di pietra della Storia e poi si ritrova a meditare sulla fragilità della propria vita personale.

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Crespi, ai suoi tempi, è stata un’utopia urbanistica come negli Anni ‘60 lo è stata, non lontano da qui, Zingonia. Le cittadine condividono la «hybris» (il peccato di superbia secondo i greci) di volersi chiamare col nome del proprio fondatore, che voleva eternare la memoria di sé come un dio. Sono entrambe figlie dell’era industriale: la prima è nata con la forza arrogante dei sogni giovanili, la seconda con l’incoscienza cieca dell’ottimismo del boom economico postbellico. Crespi è durata 50 anni, Zingonia molto meno. Ma la loro particolare relazione col tempo e con lo spazio ha regalato a ciascuna un destino diverso. A Crespi riesci ancora a cogliere la bellezza di un’idea, per quanto decaduta. A Zingonia, tra costruzione e degrado non c’è quasi stata soluzione di continuità. Certamente lì non ti vengono pensieri sulla condizione umana, se non quelli legati alla pura disperazione sociale. Senza illusioni sui tempi andati, che erano altrettanto crudeli di questi, vien però da pensare che la modernità stia perdendo sempre di più qualcosa che, pur nell’indeterminatezza del termine, non trovo miglior modo di definire: la grazia.

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