ph-LailaPozzo
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RENZO FRANCABANDERA | La svolta è stata con Tony Kushner. E’ lì che gli Elfi hanno trovato una dimensione capace veramente, a tanti anni dalla fondazione e dopo tanti cambiamenti, di contenere tutto e tutti. Tutto il loro percorso, le loro ricerche individuali e le loro individualità attorali e registiche.
Anno dopo anno uno snocciolare, come la nonna in sincrono con il rosario di Radio Maria, lavori che sembrano avere una sorta di assonanza interna, una sorta di polifonia su un unico, grande giro armonico che come per il rosario non garantirà forse la vita eterna ma riscalda il cuore a chi lo recita, e ogni tanto droga chi lo ascolta.
Quindi che si parli di Kushner o dei più recenti avvicinamenti ad Alan Bennett o Peter Morgan, la sostanza resta nel profondo abbastanza invariata, perché al di là delle variabili drammaturgiche e sceniche, c’è un ritmo di fondo, un respiro, una meccanica molto assonante, versi di una stessa preghiera contemporanea, laica, senza dio, umana, troppo umana. Non c’è trucco e non c’è inganno, se non proprio il trucco e l’inganno di essere nel luogo in cui il reale si veste di falso e viceversa.

Ne Il vizio dell’arte, Bennett stesso sceglie l’inganno del teatro nel teatro, intrecciando due storie: la prima è quella di un gruppo di attori (Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli, Umberto Petranca, Alessandro Bruni Ocaña, Michele Radice, Vincenzo Zampa, Matteo de Mojana) del National Theatre (dove per la cronaca c’è stata la prima rappresentazione di The habit of Art nel 2009) che sta provando un nuovo spettacolo: “Il giorno di Calibano” (la vicenda A). E poi c’è la storia vera e propria de il giorno di Calibano che loro stanno rappresentando (la vicenda B) incentrata su un fantomatico incontro in età matura fra Wystan Hugh Auden (Bruni) e Benjamin Britten (De Capitani), dopo gli anni di frequentazione fra le due grandi guerre.
Quanto ruota intorno ai due personaggi si intreccia con le dinamiche che riguardano il gruppo di attori che provano, arrivando a quella amorevole confusione che è proprio la base della volontà della scrittura; una scrittura che non cerca climax, quasi scientificamente brechtiana nello smorzare ogni emotività con continue interruzioni, per un intento completamente diverso da quello cercato (e ottenuto) da Peter Morgan con il Frost/Nixon proposto nella passata stagione.

Lì l’intreccio narrativo era lineare, convergeva, per arrivare, al massimo del pathos, al confronto fra i due protagonisti. E quel confronto era il centro, la piazza rinascimentale, il luogo verso cui convergevano le strade. Lì succedeva qualcosa. Anzi, lì succedeva tutto. Durante il confronto fra i due protagonisti: attorno alle parole dei due, il silenzio.

Ne “Il vizio dell’arte” invece tutto corre in modo scomposto, sguaiato, verso la vicenda del finto incontro senile ma non risolutivo, evento-non evento, durante il quale, di fatto non succede nulla, o quasi, perché ogni volta che qualcosa impattail piano emotivo o sentimentale, ecco che arriva un disturbo, un’interferenza, una mano che cambia stazione radio sul più bello, passando dalla vicenda A alla vicenda B apparentemente senza una ragione, se non proprio quella di portare allo spasimo il sentimento del finto. Più di The history boys questo testo respira le morbosità di Bennett, quei suoi tentativi di indagare l’inconfessabile, fra eros, inconscio e falsità umana. E la fetida scatola di biscotti che il poeta tiene in credenza e che repelle anche solo a immaginarla, è poi il ritratto di un’umanità alle soglie dell’incontinenza, fondamentalmente forse autobiografica, tanto che poi sul disinibito erotismo senile Bennett si è prodotto con una short novel successiva, di quattro anni fa.

Ma anche se centrata sulla solitudine e una devastante malinconia, forse quello che ha convinto a scegliere questo testo deve essere stato davvero il suo porsi su latitudini concettuali analoghe eppure diametralmente opposte a quelle di Frost/Nixon. Qualcosa che assomigliava, che metteva ancora al centro un incontro-scontro, ma che era invece tutto diverso da quanto già visto e fatto. Sarà stato questo ad aver reso l’operazione affascinante per Ferdinando Bruni e Francesco Frongia cui si deve lo spettacolo, partito, come non di rado accaduto in questi anni, dall’amorevole traduzione di Bruni stesso.

La resa si realizza entro le mura di una finta scenografia ospitata in forma scheletrica e incompleta al centro del più ampio, e vuoto palcoscenico della sala grande dell’Elfo, anche qui a giocare sul doppio. Come nel glorioso Sei personaggi della Compagnia dei Giovani (altra drammaturgia di teatro nel teatro), della prima metà degli anni Sessanta, la compagnia della vicenda A entra in scena dalla platea. Anzi addirittura gli Elfi spostano il mixer luci in prima fila, così che rimanga per tutto il tempo sotto gli occhi del pubblico, visibile macchina scenica. Il musicista esegue le musiche con un playback on stage in puro stile Kathy Mitchell, mentre il finto Britten – De Capitani mette le mani sul pianoforte.

Ci sono anche qui canzoni e interludi, moderno vezzo shakespeariano, presente anche in History boys. E c’è l’omosessualità senile, quel desiderio di gioventù che fa tornare subito alla mente Morte a Venezia di Mann. Tanto che Bennett stesso lo cita.

Gli attori sviluppano tutti una doppiezza nel recitato, che amplifica una sensazione di spaesamento che non arriva mai però a far perdere la direzione, tutto sommato tracciata. Forse è un pregio della drammaturgia, che permette alla nave di arrivare sana e salva in porto, a differenza di altre di Bennett in cui la vicenda e i personaggi appaiono meno tridimensionali. Forse ad un certo punto l’autore avrebbe potuto osare qualcosa in più, ma essere rimasto al gradino sotto il caos permette agli interpreti di tirar fuori la sferzante chiave ironica che sorregge in più punti la drammaturgia. E di giocare una partita di squadra, corale, orizzontale, dove riesce ad emergere anche la crescita d’attore di Bruni Ocaña, e in generale degli interpreti più giovani, Michele Radice, Vincenzo Zampa, e Umberto Petranca.

E’ innegabile tuttavia che il clou sia nel duello: Bruni e De Capitani paiono ormai cercarsi l’anima in questi scontri e incontri in cui i personaggi contendenti si amano in quanto rivali e si odiano in quanto complici. Il loro fronteggiarsi scenico è senza dubbio una chiave di successo di queste proposte. Ma il vizio dell’arte va visto proprio perché il duello alla fine non c’è. I due si abbandonano, restando ciascuno con la propria pistola scarica nella fondina, perché questi personaggi, come in fondo sono spesso gli attori, sono soli. Attorniati da affetti, da amori incondizionati, da applausi del pubblico per anni. Ma poi soli. A fare i conti con se stessi, la vita, quella solitudine malinconica e rancorosa che così bene Bernhard descriveva, e che un po’ si annusa in questo lavoro.
La scrittura di Bennett non arriva alla densità misantropa di Bernhard, questo va detto per onestà. Ma resta amorevolmente più leggera, ironica, autoironica. Masturbatoria, verrebbe da dire, se non fosse per quel vizietto dei pompini. Eh già. i pompini. Che avranno mai a che fare con l’arte? L’interrogativo trova comunque in chi scrive una sua risposta. Ma come Bennett in The habit of art, anche noi dichiariamo che “Questo non è un testo sui pompini”.