RENZO FRANCABANDERA | A pochi istanti dall’inizio dello spettacolo stavo per dire al gentilissimo personale di LabArca, valida e testarda struttura di Milano dedicata all’insegnamento delle arti sceniche e non solo, che su una parete laterale rispetto a quella del palcoscenico si leggeva l’illuminazione dello schermo del videoproiettore, pensavo rimasto involontariamente acceso da precedente utilizzo.

Invece ecco andar giù le luci e apparire su quella parete il sorriso sornione, l’espressione viva, sincera, quel tratto quasi asiatico e guizzante con cui ci è rimasto negli occhi Gaetano Sansone, ideatore di follie rivoluzionarie ad uso della scena. Si trattava invece di un cameo video di un paio di minuti, registrato in una delle prime, se non forse alla prima, de La via di una scimmia, di cui l’artista firmò testo e regia con la consulenza artistica di Luciana Melis, indimenticata insegnante di teatro danza alla Paolo Grassi a Milano.

Ci hanno lasciato entrambi. E questo “La via di una scimmia”, interpretato da Monica Bonomi pare quasi un’eredità, un pensiero fra il divertito e il crudele, fra il compassionevole e il disgustoso sul genere umano nelle sue forme più bieche e ordinarie.

Si tratta di una drammaturgia, in forma di monologo, tratta da Relazione all’Accademia, di Franz Kafka, un racconto di direzione opposta a quello che ha reso celebre lo scrittore praghese, La metamorfosi, in cui un uomo si ritrovava al risveglio trasformato in scarafaggio. Qui invece è una scimmia che, attraverso un lucido percorso, decide di trasformarsi in uomo, per riguadagnare la libertà perduta a seguito della sua cattura in Africa da parte di una spedizione di pionieri.

Eccola, nel suo viaggio in nave, la scimmia, che batte la testa contro il soffitto della gabbia. Eccola, Monica Bonomi, che scandisce la sua cattività a ritmo di testate sotto il tavolo dall’alto del quale poco prima stava illustrando al consesso accademico che le era di fronte le magnifiche sorti del genere umano al quale la scimmia non poteva che guardare con ammirato sguardo.

La commozione è un sentimento che a teatro viene sempre meno percorso. Forse anche perché pochi sono gli attori capaci di arrivare a toccare le corde profonde della psiche dello spettatore. Lasciamo quindi volentieri da parte Brecht per una volta e dichiariamo senza vergogna che ci siamo commossi, che questo lavoro raggiunge, nel suo momento di massima ilarità, una tristezza abissale, e nel suo momento di massima tristezza un’ironia crudele: lo spettatore non può che riflettere e riflettersi.
Il nostro imitare, lo scalpitare per arrivare e sembrare altro da quello che siamo, per poi in fondo trovarci in una dimensione che profondamente non ci appartiene, a cui siamo umanamente o intellettualmente estranei. Quanti spunti, quanti precipizi nasconde questo lavoro dietro l’apparentemente sorridente maschera à-la-Pierrot della Bonomi, che sta vivendo una maturità artistica di grande pregio. Parliamo di un’attrice da sempre votata ad un teatro non commerciale e spesso interprete di un genere, la farsa, che nel nostro tempo telemediocre conosce declinazioni misere e  mascherine da Colorado Cafè, e misconosce alcuni talenti assoluti del palcoscenico, eredi di lezioni altissime di quella Milano che, più di altre città in Italia, ha declinato un genere spesso sostenuto da esperimenti cantautorali, ad esempio. Erano gli anni Ottanta.

E questa è stata la parte del nostro patrimonio culturale distrutta dal Drive In.
Ritrovarne traccia in esperimenti così alti, che mantengono ancora le voci, le regie, le intelligenze più coraggiose della controcultura è una rarità che non possiamo che segnalare. Questo è uno spettacolo che dovrebbe riprendere a girare. Con la sua grande interprete.

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