«Questa sensazione di nullità che spesso mi domina deriva dalla tua influenza», scrive Kafka nella Lettera al padre. «Tutto quello che mi gridavi era un ordine del cielo», continua. «Era per me lo strumento più importante per giudicare il mondo e, soprattutto, per giudicare me stesso». In questa lettera mai spedita, Kafka racconta magistralmente l’impatto terribile del giudizio paterno sulla propria vita; il bisogno di amore e di riconoscimento; il desiderio di essere amato per quello che era, e non per quello che avrebbe dovuto essere.
Facendoci così capire quanto sia difficile – se non impossibile – imparare ad aver fiducia in se stessi e negli altri quando i valori e i principi non ci vengono trasmessi con amore, ma ordinati con la promessa implicita di essere un giorno diseredati. Come si fa d’altronde ad amare la vita se, fin dall’inizio, si è confrontati al muro dell’incomprensione? Come si fa ad amarsi se ci si sente immediatamente inadeguati, inadatti, sbagliati? Come si fa ad amare un’altra persona se si è cresciuti con la convinzione di non poter mai essere all’altezza delle aspettative altrui?
Tutto comincia molto presto. Quando si è piccoli, e si dipende completamente dai propri genitori. Quando si è indifesi, e si ha bisogno che qualcuno ci accolga. Quando si è fragili, ed è necessario che un «primo soccorritore», per utilizzare le parole di Freud, eviti che la nostra vita cada nel vuoto del non-senso. Che poi è un modo come un altro di parlare dell’amore. Quell’amore che non si merita e non si strappa perché c’è, indipendentemente dagli sforzi che si possono fare; quell’amore che c’è, semplicemente perché esistiamo.
Di cos’altro dovremmo infatti aver mai bisogno quando la nostra gioia è lì, nelle braccia dei nostri genitori, e tutto va bene, perché abbiamo tutto e siamo tutto? Peccato però che, tante volte, quest’amore vacilli. E che, talvolta anche con le migliori intenzioni, gli adulti non siano capaci di riconoscerci per quello che siamo, appiccicandoci addosso quel «tu sei questo» che poi diventa inevitabilmente un’ingiunzione. E che quindi la vita si trasformi in uno sforzo continuo per adeguarsi e sottomettersi a quegli «ordini del cielo», come scriveva Kafka. Nonostante gli sforzi siano spesso vani. Perché tanto non basta mai, non è mai sufficiente, manca sempre qualcosa. E quindi? Niente fiducia e niente amore? Nessuna speranza e nessuna pace?
In realtà, no. Non esiste alcuna fatalità che ci obbliga alla ripetizione. E talvolta basta un semplice «arrivederci» al proprio passato per fare un passo accanto alla sofferenza e rendersi conto che esiste altro. Persone che non giudicano. Persone che non ci chiedono di cambiare. Persone che accettano la nostra alterità. Perché andiamo bene così come siamo, anche se siamo diversi da come abbiamo sempre pensato di dover essere. Senza bisogno di cancellare le differenze o di adeguarci. Senza sensazione di nullità e ordini del cielo.
E allora scopriamo la fine della fatica e l’inizio della gioia. Anche perché non possiamo continuare a illuderci di riscrivere il passato, e arriva sempre il momento in cui bisogna finirla una volta per tutte con la ricerca disperata di colui o colei che potrebbe darci ciò che abbiamo avuto. Avremo altro. Anzi, già lo abbiamo. Basta solo aprire gli occhi di fronte a chi è già lì: reale, vero, presente.