Roberto Zappalà, Romeo e Giulietta 1.1. (La sfocatura dei corpi)

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La nuova stagione (2016/2017) di Scenario Pubblico, Centro Nazionale di Produzione della Danza, dopo l’happening del coreografo palermitano Giuseppe Muscarello (Io sono mia madre) si è ufficialmente aperta con Romeo e Giulietta 1.1. (La sfocatura dei corpi), balletto ideato da Roberto Zappalà nel lontano 2006 e portato nuovamente in scena, a distanza di dieci anni, in un’edizione aggiornata.

© Serena Nicoletti

La scelta di riproporre questo spettacolo scaturisce dalla volontà del coreografo catanese di dedicare tale stagione artistica ad una rilettura di produzioni passate, al fine di rintracciarvi elementi di frattura, di continuità, di dialogo con ciò che oggi è divenuta la sua danza. La coreografia sceglie di interpretare, attraverso il peculiare linguaggio della Compagnia Zappalà Danza (CDZ), alcune fra le tematiche forse più care alla cultura di ogni tempo, ossia quelle dell’impossibilità della libertà d’amare e del conflitto parentale, punto di partenza per una riflessione più ampia e generale sulle lotte politiche che da sempre insanguinano la storia.

Il mito shakespeariano di Romeo e Giulietta, in cui il tragico e il comico si intersecano indissolubilmente, ha nutrito l’immaginario ballettistico fin dal lontanissimo 1811, anno in cui l’italiano Vincenzo Galeotti realizza una versione per il Balletto Reale Danese; da quel momento la danza ha più volte raccontato, sempre utilizzando differenti chiavi di lettura, la triste vicenda dei due amanti di Verona. Si ricordino, per esempio, i lavori di Leonid Mikhailovich Lavrovsky (1938 al Boshoi, 1940 versione filmica) e di Kenneth MacMillan (1965), con Rudolf Nureyev e Margot Fonteyn per il Royal Ballet di Londra.

E poi, dopo Balanchine e Mats Ek, ecco nel 2006 il Romeo e Giulietta 1.1. (La sfocatura dei corpi) di Roberto Zappalà, rilettura assolutamente contemporanea del mito di William Shakespeare, dove corpi e storia si destrutturano e modificano in un continuo disarticolarsi di muscoli, ossa e giunture; si ricordino gli interpreti della versione originaria della coreografia, la splendida Daniela Bendini, biondissima ed eterea danzatrice, e Wei Meng Poon, eclettico performer dall’intensa capacità espressiva. L’operazione di recupero attuata da Roberto Zappalà si mostra piuttosto fedele alla prima messa in scena al punto che le varianti introdotte non stravolgono la struttura portante e coreografica dell’intera opera. Tra il 2006 e il 2016 ciò che cade e viene eliminato è un dispositivo meta-visivo costituito da tende in plastica atte a suddividere lo spazio teatrale in tre grandi porzioni (fronte pubblico, centro, retro), con l’intento di simboleggiare metaforicamente il conflitto fra Capuleti e Montecchi e, più in generale, tra fazioni antitetiche tra le quali vige un’impossibilità di dialogo. A questa diversa concezione della spazialità si aggiunge la scelta di costumi molto più colorati e sportivi: shorts e magliette sgargianti (forse voluta sottolineatura della giovane età dei protagonisti shakespeariani), anziché pantaloni e camicie dalle tonalità decisamente più cupe e seriose. La partitura musicale (un ibrido viaggio fra Sergej Sergeevič Prokof'ev e Josè Altafini) e quella testuale rimangono assolutamente le stesse; attraverso un minuzioso lavoro di osservazione della messa in scena precedente, Roberto Zappalà ne ha ricostruito i gesti e il senso corporeo, adattando la coreografia ai due nuovi e brillanti interpreti: Maud de la Purification, oggi musa del coreografo catanese, e Antoine Roux-Briffaud, danzatore storico della compagnia.

© Serena Nicoletti

La struttura dello spettacolo si compone di quadri, momenti, attimi in cui l’eco del drammaturgo inglese sembra risuonare con potenza per poi spegnersi in una danza che fagocita la storia, la frammenta, alterandone punti di vista e soluzioni formali. Sul piano del sistema dei segni possiamo notare un uso particolare delle maschere rispetto alla celebre tragedia elisabettiana: se nella vicenda originale era solamente Romeo a coprirsi il volto per non farsi riconoscere, nella rilettura del coreografo catanese sono entrambi gli amanti a indossare queste schermature visive, enfatizzando il tema, già preannunziato dal titolo, della ‘sfocatura dei corpi’.

La questione dello sguardo è sottolineata anche attraverso la citazione di quattro brevi estratti sonori di Deconstructing Harry (Woody Allen), che insistono sulla difficoltà della messa a fuoco, del percepirsi per intero e non solamente a fotogrammi parziali. Tale motivo si concretizza, poi, ulteriormente nell’uso paradossale che Zappalà fa proprio delle maschere: quando vengono momentaneamente tolte dai volti, i due innamorati perdono la possibilità del contatto fisico e visivo, tramutandosi in ombre di carne che vagano in assoluta solitudine esistenziale. La maschera, filtro sociale e culturale, assurge quindi a strumento comunicativo necessario seppur tragico, motore funzionale di una narrazione di corpi, parole e note.

Un altro segmento interessante riguarda lo sviluppo della citazione della rosa del celebre dialogo fra i due giovani innamorati: Zappalà qui sceglie di utilizzare un brano musicale totalmente avulso dalla trama originaria del dramma, ossia La rosa di José Altafini, canzonetta allegra e giocosa dalle sonorità latine. È questo il momento in cui anche i corpi dei due danzatori sembrano nutrirsi della leggerezza propria di tale melodia, abbandonandosi a movenze e sorrisi privi di qualsivoglia presagio di morte. L’evento luttuoso, però, è annunciato dalla scelta di determinati cromatismi: un tappeto di luce rossa, colore del sangue e della morte, accompagna i movimenti dei performer, enfatizzando l’idea di una catarsi determinata dal sacrificio carnale. Questa scia di luce diviene a un tratto verde, come il veleno che ingeriranno gli amanti e come il colore tradizionalmente attribuito all’idea di speranza. Corpi forti, flessibili e disarticolati, Maud (Giulietta) e Antoine (Romeo) si privano persino delle calzature sportive che avevano accompagnato i primi movimenti della performance, conferendo a questa scelta scenica una ben precisa intenzionalità comunicativa: spogliarsi delle sovrastrutture ideologiche e politiche per ritornare a un originario contatto di spirito e materia, a una spontaneità dell’amarsi che ritroviamo, non a caso, nel progetto Transiti Humanitatis, un percorso a tappe dedicato al principio di accoglienza dell’Altro.

© Serena Nicoletti

Nonostante la tensione fra i due amanti, protagonisti di un fitto corpo a corpo, l’opera del coreografo catanese culmina in un finale aperto in cui i due interpreti rotolano avvinghiati verso il fondo della scena, lasciando sfumare l’ipoteca della morte. L’idea di attenuare la catastrofe della tragedia shakespeariana non è una scelta neutra, ma rinvia a quello che probabilmente è il senso ultimo dello spettacolo: il richiamo a una speranza (forse già evocata da quel tappeto di luce verde) che promana dalla cenere di una catarsi scenica universale.