tim farron

Ogni consultazione politica, di qualsiasi tipo, ha un impatto sulle dinamiche elettorali dei partiti che vi partecipano. Tanto maggiore se si parla di un evento epocale come il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Attenzione però, perché non sempre chi ci guadagna elettoralmente coincide con il vincitori della consultazione.

Si può dire, certamente, nel caso dell’UKIP: un single issue party che dopo 23 anni ha raggiunto (almeno dovrebbe) il suo obiettivo primario. Non si può dire, ad esempio, dei Brexiters Conservatori, che si trovano davanti un partito spaccato e la probabile responsabilità di governare i fragilissimi equilibri scaturiti dal voto. Anche la frangia Remainer del partito è stata sconfitta, nelle urne e fuori, con il Primo Ministro David Cameron costretto a dimettersi e a testimoniare una posizione minoritaria.

Che dire del Labour di Jeremy Corbyn, di cui i deputati chiedono a gran voce (e con un voto di sfiducia passato con quasi l’80%) le dimissioni? Corbyn, malignano alcuni, non ha mai amato l’UE e la sua segreteria avrebbe messo non pochi bastoni tra le ruote alla campagna per il Remain. La sconfitta al referendum ha dato ai suoi numerosi nemici il pretesto che aspettavano per fargli le scarpe, ma il suo ampio sostegno popolare potrebbe riservare non poche sorprese, mostrando il sempre maggiore scollamento tra l’elettorato socialista e la sua classe dirigente. C’è chi ci guadagna anche tra i perdenti, dicevamo. Innanzitutto lo SNP di Nicola Sturgeon, accolta a Bruxelles come un Capo di Stato e che rafforza sempre di più l’egemonia indipendentista sulla Scozia. Ma paradossalmente anche i Libdem, i più europeisti nel campo britannico, che in seguito a questo voto potrebbero risorgere.

I liberaldemocratici vivono un periodo di grande crisi, culminato con una solenne batosta alle Europee del 2014 prima e alle General Elections del 2015 poi. Ragione del crollo l’alleanza con i Conservatori nel governo di coalizione e, più nello specifico, l’innalzamento delle tasse universitarie, che gli ha alienato gran parte del voto giovanile su cui contavano. Hanno dovuto cedere il posto di “alternativa credibile” all’SNP. Nick Clegg è stato costretto alle dimissioni. Il nuovo leader Tim Farron ha cercato di ricostruire il partito dalle fondamenta, incominciando dalle elezioni locali. Ora, la sconfitta al referendum, in cui i liberali hanno cercato di fare il possibile con mezzi molto limitati, apre nuove praterie per il partito centrista. Farron sta, legittimamente, cercando di accreditarsi come leader europeista ed unionista ed è stato mattatore della protesta di piazza organizzata a Trafalgar Square.

Quasi 7500 persone si sono tesserate ai liberaldemocratici in seguito al voto di giovedì scorso, un risultato che dopo anni di magra mostra chiaramente la centralità del partito nel dibattito sull’Europa. Un dibattito sul quale Tim Farron non ha ancora gettato la spugna. “Rispettiamo il risultato del referendum” ha dichiarato “ma la Brexit avrà un impatto sul costo della vita, delle case e sul lavoro. Con i Brexiters che rinunciano alle promesse fatte su NHS e immigrazione, slogan centrali nella loro campagna elettorale, è chiaro che hanno detto una bugia dopo l’altra ai britannici”. Bugie che i Libdem sono pronti a ribaltare, insieme al risultato di un referendum a loro avviso fondato sulla menzogna.

Farron ha infatti annunciato che il tema principale della sua campagna elettorale per le prossime elezioni generali, che si dovrebbero tenere nel 2020, salvo potenziali scossoni, sarà proprio fermare il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Un progetto ambizioso e che probabilmente non basterà a garantire ai liberali la maggioranza assoluta di Westminster, ma che potrebbe accreditarli come unico partito nettamente europeista (insieme allo Scozzese SNP) nel Regno Unito. A questo va sommato il fatto che la leadership di Farron è, almeno per il momento, solida e il partito è unito e compatto. Una situazione che negli altri movimenti è difficile da trovare, in questo momento. Probabile che, con Labour e Conservatori in crisi d’identità, possano emergere tre voci molto contrastanti come alternative. Da un lato gli europeisti Libdem e scozzesi, dall’altro un’UKIP al suo massimo splendore, in grado di oscurare al momento della vittoria i leader di Vote Leave, Johnson e Gove, senza piano e – almeno per il momento – senza leadership. Il bipolarismo a Westminster sembra un lontano ricordo.