#Precari in cerca di casa [La mia vita in Germania]

bambini-terraQuando si emigra si ha come la sensazione di essere lanciati nello spazio in una capsula del tempo: un tempo fermo. Le lancette dell’orologio, il calendario, il metabolismo, tutto rimane tenacemente ancorato a quell’attimo che precede la partenza, come se fosse il perno cui fare ritorno nel caso ci si dovesse perdere. È un perno forte, sono le nostre origini e, per quanto ci spacciamo per grandi avventurieri, difficilmente vogliamo dimenticarle.

Mi capita di parlare con molti italiani qui in Germania. Anche perché non conosco il tedesco, e le barriere linguistiche di certo non favoriscono l’integrazione. Ma ci sono italiani che stanno qui da vent’anni, e queste barriere non le hanno ancora superate: non parlano il tedesco, si rifiutano. Conservano intatto il loro dialetto, lo tramandano ai figli che nasceranno qui, in terra straniera, figli che cresceranno convinti di essere bilingue e che la loro patria sia l’Italia. Un’Italia che, in realtà, non li conosce e non saprà mai quanto sia desiderata. Una patria che ha rifiutato i loro genitori e che respingerà anche loro, come un’amante che fa la preziosa. Si crea quindi una comunità ibrida, che si auto ghettizza per sopravvivere dimenticando di vivere. Questo accade agli italiani di Germania, e non conta da quanto tempo siano qui. Sono tutti chiusi in quella capsula, ricordate? Li incontri a gruppi, nei ristoranti, per strada, nei negozi. Li riconosci per quello sguardo liquido, colorato, acuto, indagatore, uno sguardo vivo ma malinconico. Sono tutti qui “per un po’”, se lo ripetono da quando sono arrivati. E magari è trascorsa più della metà della loro esistenza. Guardano in TV i programmi italiani, sono ipercritici coi politici, ascoltano Ramazzotti e Tiziano Ferro e hanno nostalgia del mare. E magari vivevano a Vigevano.

Il fatto è che noi nasciamo “peninsulari”, circondati dal mare. Lo respiriamo insieme al latte di nostra madre, ci arriva coi venti dell’est e dell’ovest, ne abbiamo i pori impregnati come i marinai di lungo corso e come questi sogniamo di tornare al nostro porto, un giorno o l’altro. Credo che questa nostalgia si percepisca più forte qui in Germania, e credo dipenda dal fatto che sia così vicina “fisicamente” all’Italia eppure così lontana strutturalmente e culturalmente. La vicinanza geografica non ci permette di staccare completamente il cordone ombelicale della terra natìa, cosa che è di certo più naturale, seppur dolorosa, in paesi extra europei.

Le donne italiane emigrate in Germania tornano “a casa” almeno una volta l’anno. Tornano per andare dal parrucchiere, per comprarsi le scarpe e i vestiti, per fare provviste di storie da raccontarsi la sera, quando fa buio presto. Gli uomini italiani emigrati tornano “a casa” per esibirsi, per mostrare ai parenti l’auto nuova, il portafogli gonfio, per offrire generosamente al bar o al ristorante e scuotere la testa per tutto ciò che in Italia ancora non va. Loro tornano per godersi l’Italia come mai hanno potuto fare in passato.

Mi chiederete “ma come fai a dire tutto questo dopo pochi giorni che sei lì?” Vero. Come è vero che ci sono le dovute eccezioni. Ma sono una viaggiatrice da sempre, e sono una scrittrice. Quindi osservo e vado oltre le apparenze. E ascolto, con molta attenzione. Io sono qui “per un po’”, davvero, non ho l’esigenza di integrarmi, e paradossalmente mi sento a mio agio, libera di muovermi, conoscere, cogliere opportunità. Il mio stare qui non è per sempre. Bisogna essere distaccati dalle cose per poterle valutare…Poi ci sono i giovani italiani (le eccezioni), quelli sotto i trent’anni (che già a trentuno l’imprinting italiano è troppo profondo), ancora troppo freschi di vita per esserne sazi, che cercano di approfondire la vita tedesca, di capirne i meccanismi reali, di adeguarsi. E ci riescono anche. Parlano tedesco, hanno amici tedeschi, vanno al cinema, a teatro, ai concerti. Ma non perdono la loro italianità. Sarà quel profumo di mare che sta nella pelle?

L’italianità. Quello che i tedeschi amano di noi. Quello che noi disprezziamo di noi stessi e che ci fa fuggire per poi averne nostalgia quando siamo lontani. Il perno cui siamo ancorati. Sempre lì si torna… Che gente strana siamo. Unici, irripetibili, pazzi creativi, fantasiosi artisti della vita, appassionati, belli, istintivi, precari a vita, pescatori di illusioni. Dicono che oggi – lo dicono i giovani, e non solo – identificarsi con una patria sia sbagliato, e anche io penso sia così. La patria è un concetto ormai antico, passato, sepolto sotto cumuli di nefandezze politiche, sociali, economiche. Lasciamo la patria ai nostri nonni e bisnonni, che hanno fatto la guerra e sono morti per lei. Ma la terra, la zolla che per prima si è impregnata dei nostri umori e ci ha restituito il suo odore mescolato al nostro, è a lei che vogliamo tornare. Che lo diciamo o lo sussurriamo, quello è il porto finale. Quella è casa.

3 thoughts on “#Precari in cerca di casa [La mia vita in Germania]

  1. Quello che scrivi è malinconico e oserei dire inquietante, forse perché risuona ancora di più nella mia anima legata alla terra dove sono nato e che evita ogni spostamento dai luoghi conosciuti, oggi ancora più di ieri. Ma anche quelli che viaggiano, si spostano e sembrano essere cittadini del mondo, in realtà, sotto sotto, anelano ad una stabilità di luoghi e situazioni che oggi è sempre più difficile. Questa mi pare dica la tua riflessione e questo, anche nel mio piccolo, vedo anche io.

    Io spero che, in ogni caso, la tua avventura ti porti gradite novità. 🙂

    • Vedi, è così. Tutti quelli che incontro (con le dovute eccezioni, come ho detto) anelano a casa. Non ad averne una qui, ma a quella che hanno lasciato, anche se ormai sono partiti da 20 o 30 anni. Poi non accettano la nostra disorganizzazione, il qualunquismo e tutto ciò che non va, ma trattengono nell’anima quel senso di appartenenza forte che è tipicamente italiano. Io sto bene e, ti assicuro, guardo tutto e ascolto con estrema curiosità. Mi sento un po’ come uno scienziato o un antropologo: studio l’evento. La mia avventura quindi non può che andare bene, giusto? 🙂

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