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7 aprile 2020

Lezioni su Kant: 12. Dialettica trascendentale, parte 3. "L'essere non è un predicato". Ontologia






In questa lezione: le "soluzioni" kantiane alle antinomie, la critica alla prova ontologica, la tesi kantiana "l'essere non è un predicato reale" inserita nel contesto della storia della concezione dominante sull'essere, da Parmenide alla logica predicativa standard, secondo Francesco Berto (L'esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Editori Laterza 2010.) Su questo libro di Berto avevo già pubblicato un post:
Vedi anche:








Sulla questione ontologica ho scritto vari post... :


19 luglio 2018

La giustizia dell'edera. Sul male e sul bene







Passeggiamo nel giardino intorno a casa.
Il grande ciliegio ha tutto il tronco avviluppato dall’edera.
– C’è da fare questo lavoro…
– Me ne occupo io!
Mentre pazientemente stacco, con l’aiuto di un coltello, tutti i rametti di edera abbarbicati alla corteccia e tirando arrivo fino a terra, dove insisto nella mia opera sradicando quanto mi è possibile, rifletto.
«È giusto quello che sto facendo?»
I miei pensieri vanno subito al fatto che, lasciando le cose al loro corso naturale, l’edera avrebbe potuto ricoprire completamente l’albero sfiancandolo, soffocandolo fino a farlo morire. Sarebbe stato un vero peccato: un ciliegio anziano ma ancora molto produttivo (chili e chili di ciliegie) …
Però di fatto sto uccidendo quest’edera, adesso. La sto facendo a pezzi e la sto sradicando. Quindi dal punto di vista dell’edera le cose sono molto diverse.

Riprendendo a riflettere, molti anni dopo, penso che di fronte a quella situazione non ci fosse un possibile comportamento imparziale, giusto in assoluto: o ci si alleava col ciliegio, oppure con l’edera. Se la scelta fosse stata la seconda, si trattava di lasciare semplicemente che l’edera andasse avanti nella sua crescita (peraltro anche molto veloce, quasi impetuosa), sacrificando il ciliegio (magari dicendosi, con una punta di cinismo, ormai è anziano…). Nella realtà ci eravamo alleati invece col ciliegio, salvandolo dall’abbraccio mortale.

Ma perché sarebbe stato impossibile un comportamento imparziale? Rendere giustizia a ciascuna pianta, far valere il principio di eguaglianza (in questo caso: il diritto di ciascuna pianta a vivere, a modo suo, la sua vita), sarebbe stato impossibile perché in natura esistono piante, come l’edera, che vivono sulle spalle di altre; vivono facendo morire altre piante. Ma questa natura parassitaria di alcune forme di vita, non è, in fondo, un meccanismo strutturale della vita stessa? Potremmo quasi dire che l’edera ci mostra, in modo estremizzato, una caratteristica essenziale della vita stessa, che cresce consumando altro. E se questo “altro” è una forma di vita possiamo dire che la vita cresce consumando vita. Nel caso delle piante l’alimentazione (normalmente) avviene senza distruggere altre forme di vita, ma le piante consumano pur sempre qualcosa: l’energia solare, l’acqua, la sostanza del terreno… Insomma, siamo entrati in pieno in considerazioni che potrebbero essere uscite dalla penna di Schopenhauer. Ma allora… Attenzione! Non stiamo forse adesso giudicando la natura? Non stiamo forse dicendo che la natura è violenta in sé, che la vita è ciecamente e violentemente proiettata sulla crescita infinita, divorando nel contempo se stessa? 

Che diritto abbiamo di giudicare moralmente le leggi della vita? La nostra riflessione era partita da una semplice domanda: 
«È giusto quello che sto facendo?».

Nel momento in cui mi pongo la domanda morale sul mio comportamento, sto sottoponendo al dubbio morale il mio agire, e il mio agire è un pezzo della realtà vivente. Io, soggetto umano, non sono fuori dalla grande catena che lega gli esseri viventi gli uni agli altri e nell’insieme al mondo terrestre e al cosmo. Quindi se la mia domanda è morale, sottopongo a sguardo morale il tutto, pur partendo da una sua parte.

Certamente esiste anche la possibilità di giudicare positivamente, nel complesso, il tutto. Viene subito in mente Leibniz, ma in fondo anche Spinoza, che pur negando l’antropocentrismo e il finalismo aveva uno sguardo morale sulla totalità e la giudicava degna di amore supremo.

Eppure il vero problema mi sembra un altro. L’ipotesi (metafisica?) che mi interessa proporre è, al di là di un giudizio morale complessivo sulla vita o sulla natura o sulla totalità, che vi siano due forme di esistenza: una basata su principi di autonomia e generosità (rappresentata dal ciliegio) e una basata su principi di dipendenza e rapacità (rappresentata dall’edera). Insomma, la classica contrapposizione tra bene e male.
Il male esiste, in questa ipotesi, oggettivamente. Ma esiste oggettivamente, per fortuna, anche il bene. Questo dualismo lo si può osservare nella storia umana, ma, come mostra l’esempio vegetale da cui siamo partiti, lo si può osservare anche in altre sfere. E forse anche, conoscendo bene la fisica o la chimica, lo si può ravvisare oltre la sfera delle cose viventi.

Forse si può rileggere Pareyson (Ontologia della libertà) e tornare a pensare alla contrapposizione tra essere e nulla, ma spogliandola (così piacerebbe a me) del senso religioso entro il quale lui l’aveva concepita. L’essere è autonomo e generoso, il nulla (che esiste eccome, al di là dei problemi logico-ontologici che questo solleva) è dipendente e distruttivo. Il nulla "esiste" in modo dipendente, nel senso che esiste in quanto annullamento, deperimento, disgregazione, consumazione (ecc) di qualcosa.

18 marzo 2018

Lettera aperta a Varzi e D’Agostini sul senso o nonsenso del tutto








[sugli argomenti di questo post avevo già scritto Contro l'infinito, e prima ancora Il paradosso della Biblioteca di Babele]

Cari,
tento ancora di stimolare una discussione fra voi due (che lo facciate attraverso di me è secondario).

Qualcosa che di fatto è conoscibile in alcune sue singole parti (cioè la realtà), può invece essere in linea di principio inconoscibile nell’insieme? Sembra più ragionevole credere che possa essere conoscibile anche nell’insieme, se non altro perché altrimenti dovrebbe essere composto di parti isolate fra loro. Quindi è ragionevole credere che il tutto sia in linea di principio conoscibile. Può una cosa conoscibile essere priva di senso?? Se è conoscibile deve avere una struttura, un ordine... deve quindi avere senso.
Potremmo però trovarci in questa situazione: siamo dentro una singola parte del tutto, questa parte è conoscibile, è sensata, ma è isolata dalle altre parti del tutto, e queste parti sono infinite, attualmente infinite.
Quello che ho adesso descritto è l’universo di D.K.Lewis: infinito e privo di senso. O l’universo è come quello di Lewis, oppure è finito e sensato . Potrebbe essere sensato in ogni singola parte ma essere attualmente infinito, e quindi insensato nell’insieme?

Chiedo lumi a voi due. Se rispondete usate il “rispondi a tutti”, in modo che possa leggere io, ma anche l’altro ...

6 settembre 2015

Sul rapporto tra mente e corpo






La mente deve amare il corpo!

Allora si potrebbe aggiungere: "Anche il corpo dovrebbe amare la mente!".
Ma può un corpo amare?

Altri direbbero che corpo e mente sono in realtà la stessa cosa, considerata da due punti di vista diversi.
E se sono la stessa cosa ci si potrebbe chiedere se il problema del loro rapporto sia in realtà un falso problema.
Ma un problema sussiste. Infatti gli antichi spesso consideravano il corpo come prigione dell'anima. Più tardi, a cominciare da Platone, invece che parlare di conflitto fra corpo e anima si è parlato di conflitto dell'anima con se stessa, di conflitto fra parti dell'anima.

Allora il mio pensiero iniziale si potrebbe riformulare così: la mente dovrebbe amare se stessa in quanto corpo. ~ Esperienze più "distanti" dal corpo (pensieri) dovrebbero amare esperienze più "vicine" al corpo (bisogni, pulsioni). ~ Il proprio io pensante dovrebbe amare il proprio io bisognoso e desiderante.

Ma può l'io pensante amare?
Si tratterebbe di ciò che Spinoza chiama "amore intellettuale"?
Forse il mio pensiero iniziale andrebbe ancora riformulato:
L'io amoroso dovrebbe riconciliare l'io pensante e l'io bisognoso.

L'io pensante non dovrebbe sentirsi prigioniero del corpo (l'io bisognoso).
Ma forse c'è uno squilibrio strutturale: la mente sa che senza corpo non potrebbe esistere, il corpo invece sa che potrebbe essere anche solo corpo.
Il corpo sa che potrebbe essere corpo vivente ma non pensante. O, addirittura, potrebbe essere corpo non vivente.
La mente, come testimoniano le varie dottrine sulla reincarnazione o sull'immortalità, può inorgoglirsi e tendere a rifiutare la propria dipendenza dal corpo: "io posso esistere anche senza corpo!" . Ma al di là di queste credenze, speranze, fedi, la mente sente la propria dipendenza dal corpo.
La mente sente che il corpo viene prima, che ha priorità sia pratica sia ontologica.

La mente vive male la propria dipendenza  dal corpo: se il corpo è affamato non si può pensare! 
I bisogni del corpo possono invadere l'intero campo dell'esperienza e impedire il pensiero.
Se il corpo si ammala, se prova dolore, tutto il pensiero viene convogliato su questi problemi e sembra quasi impossibile pensare liberamente.

La mente sogna di poter pensare infinitamente: solo così potrebbe forse risolvere alcuni problemi (metafisici!) in cui si imbatte.
La mente sogna di non dipendere dal corpo, sogna di poter avere un'esistenza autonoma e un tempo infinito davanti a sé.

Se la mente si inorgoglisce, se il suo sogno di autonomia diventa esigenza, o pretesa di un diritto, la mente può iniziare a disprezzare il corpo.
Quanta svalutazione del corpo c'è stata, nella nostra cultura! 
Di questa svalutazione fa parte anche la condanna del piacere sessuale.
Altra cosa, diversa dalla condanna, è l'invito alla misura e all'equilibrio.

Un conto è la dipendenza ontologica della mente dal corpo (questa va solo accettata, anzi amata).
Un conto è la dipendenza psicologica: è rispetto a questa che ha senso l'invito alla misura e alla moderazione nella soddisfazione dei bisogni del corpo. 
La temperanza si ha quando la mente si prende cura, amorosamente, dei bisogni del corpo.
Questo è il vero presupposto di una liberazione del pensiero, non il disprezzo e la condanna del corpo.


10 agosto 2015

Markus Gabriel, la metafisica, l'infinità del tutto.





Il mondo, sostiene Markus Gabriel, non esiste (M. Gabriel, Perché non esiste il mondo, Bompiani 2015, ed. orig. 2013). In effetti sembra impossibile pensare all’esistenza di un unico “Superoggetto” che tenga insieme i molteplici modi in cui si presentano i vari tipi di oggetti nella nostra esperienza: oggetti fisici, oggetti possibili, oggetti astratti (numeri, valori, proposizioni), oggetti dell’immaginazione, eventi, proprietà…
Pensare che il mondo coincida con l’universo (fisico) sembra riduttivo, anche se è legittimo sostenere che le varie forme di esistenza degli altri oggetti si possano “ridurre” all’esistenza degli oggetti fisici. Per esempio: Biancaneve è un oggetto immaginario la cui esistenza è riconducibile a esperienze mentali degli esseri umani, le esperienze mentali “sopravvengono” a eventi nel cervello umano, e questi eventi hanno comunque una base materiale, fisica.
Certamente, se con l’idea di mondo vogliamo pensare anche la totalità delle esperienze umane, non ci basta attendere dalla cosmologia la risposta alle nostre domande riguardo al mondo: è sensato? ha valore? è comprensibile nell’insieme? Ma la filosofia, e la metafisica in particolare, hanno da sempre puntato proprio sulla totalità, sul tutto, la loro attenzione e le loro ricerche avendo sempre di mira l'uomo e la sua esperienza all'interno della totalità.
Uno dei maggiori metafisici della tradizione, Spinoza, aveva in realtà posto alla base del suo sistema proprio l’idea di una sorta di Superoggetto: la Sostanza, dotata di infiniti attributi, fra i quali l’estensione e il pensiero. Il monismo di Spinoza, che Markus Gabriel ritiene insostenibile sulla base della sua tesi dell’inesistenza del mondo, non aveva affatto impedito al grande metafisico olandese di includere nel suo sistema l’uomo, le sue esperienze, le sue conoscenze, le sue emozioni.
Del resto lo stesso Gabriel, che negando l’esistenza del mondo dovrebbe negare anche la possibilità della metafisica, sostiene in realtà una tesi metafisica, una complicata versione di pluralismo metafisico:
“Il mondo, per così dire, si ricopia in se stesso con una frequenza infinita, contenendo piccoli mondi consistenti, a loro volta, di altri più piccoli mondi. Perciò conosciamo sempre e solo sezioni dell’infinito. Uno sguardo d’insieme sull’intero è impossibile, perché l’intero non esiste.”
Ora, sostenere che il mondo non esiste perché non c’è un campo di senso nel quale possa darsi (altrimenti sarebbe al di fuori del mondo, quindi il mondo non sarebbe la vera totalità dell’esistente) è un po’ come sostenere che lo spazio non esiste perché non c’è uno spazio nel quale possa collocarsi lo spazio stesso (e tutto ciò che esiste deve essere collocato in uno spazio).
Questa è però solo una caricatura delle argomentazioni di Gabriel, che sono in realtà molto articolate; e la sua tesi fondamentale coglie a mio avviso un aspetto importante del problema metafisico, cioè il fatto che la metafisica si è sempre in qualche modo costruita il suo oggetto di riflessione, pur partendo da un impulso profondo della ragione umana: il tutto, il mondo, di fatto non si dà nella nostra esperienza (come ci insegna Kant), quindi ragioniamo in realtà sull'idea di mondo, prendendo spunti dalle scienze, dalle arti, dalle religioni, e speriamo che queste nostre riflessioni possano cogliere qualcosa di vero della realtà nel suo insieme.
Sotto agli argomenti di Gabriel sta il problema se il mondo, il tutto, sia finito o infinito (e Gabriel sostiene decisamente la tesi di una pluralità infinita di sostanze-mondi-campi di senso fra loro connessi). Questo è solo uno dei problemi metafisici fondamentali. (Un altro è se il tutto sia sensato o no.) Vorrei provare a soffermarmi un po’ su di esso.
Non voglio impegnarmi a parlare del mondo in sé, del mondo reale (con tutta la varietà di forme di esistenza che comprende), ma solo dell’idea di mondo e delle sue relazioni con le idee di finito e infinito.
Con “mondo”, in filosofia, si può intendere l’idea di tutto ciò che esiste. In altri termini, con questa idea, o con l’idea di “tutto”, intendiamo l’insieme di tutte le cose esistenti.
Ora chiediamoci: nel solo pensare questo insieme, vi è già qualche indicazione che porta più verso l’idea di finito o più verso l’idea di infinito?
Si può ragionare in questo modo: sappiamo, dalla matematica, che sono pensabili sia insiemi finiti, sia insiemi infiniti. L’insieme dei cittadini italiani ad una certa data è un esempio di insieme finito. L’insieme dei numeri interi naturali è un esempio di insieme infinito. L’idea di “insieme” non ci aiuta.
Il fatto che i numeri siano infiniti non è un argomento sufficiente a sostenere l’infinità del tutto, perché non è scontato che i numeri esistano, e in ogni caso questo tipo di problema riguarda il problema metafisico vero e proprio sull’infinità o meno del mondo, mentre qui ci stiamo limitando a indagare connessioni fra concetti. 
C’è una connessione concettuale fra “tutto” e “infinito”? Sicuramente l’idea del tutto rifiuta l’idea dell’infinito potenziale: se al tutto posso sempre aggiungere qualcos’altro non sto pensando certamente al tutto. Al tutto potrebbe calzare l’infinito attuale, cioè l’idea di un insieme attualmente infinito, al quale non posso pensare di aggiungere altro. 
C’è una connessione concettuale fra “tutto” e “finito”? È pensabile il tutto come finito? Nel nostro concetto di “finito” c’è l’idea di qualcosa che ha dei limiti, dei confini, un inizio e una fine. Se proviamo a pensare al tutto come finito dobbiamo necessariamente pensare al nulla, al non-essere assoluto, come unico possibile confine del tutto. Si tratterebbe, in termini insiemistici, di un insieme che non lascia fuori alcun elemento. Qual è la proprietà che definisce questo insieme? L’esistenza. Quindi se qualcosa esiste (in qualche senso) è incluso. Fuori dall’insieme il nulla assoluto. Parmenide riteneva il non-essere qualcosa di completamente impensabile. Nella mia esperienza il nulla assoluto è pensabile metaforicamente, come uno spazio vuoto. Il problema immaginativo è pensare al vuoto senza neanche lo spazio. Un punto geometrico (inesteso)? Al di là delle nostre difficoltà immaginative ci sono anche alcune difficoltà logico-concettuali: il non-essere assoluto dovrebbe a sua volta essere limitato, nel senso che farebbe da “sfondo” al tutto.
Queste difficoltà logico-immaginative nel pensare al tutto come finito ci fanno propendere, concettualmente, ad associare al “tutto” il concetto di “infinito attuale”.
Resta però aperta la possibilità che il tutto reale, non l’idea del tutto, sia invece finito. 

6 marzo 2015

L'infinito non è di questo mondo.






a Franca D’Agostini


«Porre un limite all'infinito è un tema ricorrente nella fisica moderna. [...] molto spesso, ciò che appare infinito non è altro che qualcosa che non abbiamo ancora capito o contato. [...] "Infinito", in fondo, è solo il nome che diamo a ciò che ancora non conosciamo. La Natura sembra dirci, quando la studiamo, che non c'è nulla, alla fine, di davvero infinito. [...] L'unica cosa davvero infinita è la nostra ignoranza.»
C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Milano 2014




1. Il paradosso della Biblioteca di Babele
La biblioteca di Babele è un famoso e straordinario racconto di Jorge Luis Borges. Vi si narra di una biblioteca talmente vasta da costituire un universo. La biblioteca risulta essere composta da un numero sterminato di volumi, talmente alto da sembrare infinito, ma tale numero non è infinito, in quanto si tratta di tutte le possibili combinazioni di 25 caratteri (22 lettere, la virgola, il punto e lo spazio) in volumi costituiti da 410 pagine, ciascuna con 40 righe e 40 caratteri per riga (quale sia effettivamente tale numero è stato calcolato da Achille Varzi nello scritto Il libraio, lo scrittore e la    biblioteca di Babele). Alla fine del racconto il narratore ipotizza che la biblioteca sia infinita, ma semplicemente nel senso che la sterminata serie di volumi potrebbe ripetersi ciclicamente infinite volte.
Tale biblioteca contiene "tutto ciò che è dato esprimere, in tutte le lingue”. Togliamo la questione degli innumerevoli e preponderanti volumi privi di senso, con accozzaglie mostruose di lettere, togliamo per ipotesi anche i volumi ibridi, con frammenti di senso che navigano in mari di "insensate cacofonie" (temi su cui peraltro è imperniato gran parte dello sviluppo narrativo). Consideriamo solo i volumi sensati. Ci troviamo comunque di fronte a un'idea paradossale: la quantità di cose esprimibili non è infinita!
Ciò significa, ad esempio, che le opere d'arte che è possibile scrivere sono un numero finito, quindi che alla lunga la letteratura sarà destinata a finire, a meno di non doversi ripetere, ma anche che le teorie scientifiche possibili non sono infinite, quindi a un certo punto la ricerca avrà un termine perché avremo scoperto tutto quello che c'era da scoprire.
E la storia? Sembrerebbe che finché la storia va avanti, i libri che la raccontano debbano essere sempre diversi, ma allora? Dobbiamo concludere che siccome la quantità di cose che possiamo esprimere è finita allora anche la storia debba interrompersi? Qui arriviamo al vero paradosso: ipotizziamo di prendere solo i libri di storia della biblioteca di Babele. Sono tantissimi, ma un numero finito. Ipotizziamo che ogni volume racconti la storia di un secolo, e che la storia non si ripeta mai ma sia sempre diversa. Si può argomentare così: per quanto grande, il numero dei volumi di storia della biblioteca di Babele sarà n, corrispondente a n secoli. Ma la storia potrebbe durare n+1 secolo. Il volume che descrive quel secolo n+1 non è contenuto nella biblioteca. Chiediamoci però: il volume che descrive il secolo n+1 non è comunque composto di caratteri come gli altri? Se la biblioteca contiene tutte le combinazioni possibili dei caratteri non dovrebbe contenere anche quel volume?
In altri termini, il paradosso consiste nella contraddizione tra l’idea che la quantità di cose esprimibili sia finita e l’idea che il tempo, inteso come la storia dell’universo, sia infinito.
Il contrasto di fondo, che produce il paradosso, risiede nella finitezza della Biblioteca rispetto alla presumibile infinità di cose/eventi che possono essere descritti, espressi, narrati, teorizzati



2. Conseguenze cosmologiche del paradosso
Sostengo che riguardo alla storia dell'universo siano possibili solo due ipotesi:
1) che abbia avuto un inizio e che avrà una fine,
2) che si ripeta ciclicamente.
Per un ragionamento che abbozzo più avanti, ritengo molto più probabile la prima delle due ipotesi.
E' da escludersi, invece, secondo un ragionamento che parte dal paradosso della Biblioteca di Babele, che:
3) abbia avuto un inizio e che possa svolgersi in futuro in modo sempre diverso all'infinito,
4) che non abbia avuto un inizio e che si estenda all'infinito nelle due direzioni (all'indietro e in avanti) in modo costantemente variante.
L'argomento parte dall’idea che la quantità di cose esprimibili non sia infinita. Non sono infinite, quindi, le descrizioni vere che corrispondono agli eventi della storia dell'universo. Facciamo l'ipotesi che per ogni galassia esistano 24000 miliardi di volumi che ne descrivano in modo veritiero l'evoluzione, la storia, entrando nel dettaglio delle stelle e dei pianeti più significativi (nel caso in cui su uno o più pianeti si sia sviluppata la vita ammettiamo pure che vi sia un supplemento di 36000 miliardi di volumi per ciascun pianeta, nei quali vengono descritte le varie specie e la loro evoluzione, la storia delle loro civiltà e così via). Per quanto sia enormemente grande il numero di questi volumi, sarà sempre un numero finito n (Certo, a meno che il numero delle galassie non sia infinito. Ciò aprirebbe un ulteriore paradosso rispetto alla finitezza delle cose esprimibili…). Rispetto all'idea che la storia di ogni galassia possa essere più lunga rispetto a quanto narrato in quei 24000 miliardi di volumi vale il paradosso che abbiamo già esposto: ammettiamo che vada oltre, non sarà comunque descrivibile? Se è descrivibile rientrerà nel numero finito delle cose esprimibili. Quindi forse saranno necessari più volumi, ma non potranno mai essere infiniti volumi. Dal paradosso si esce quindi solo con due ipotesi: o la storia dell'universo è finita, o si ripete ciclicamente uguale (se fosse ciclica ma ogni volta diversa non sarebbe in realtà ciclica). Questa seconda ipotesi, però, appare altamente improbabile: lo studio dei fenomeni naturali mostra come la contingenza sia sovrana, quando si parla di successioni storiche, con un prima e un poi. Non resta dunque che l'ipotesi 1 come la più probabile.

3. Obiezioni e risposte
Una filosofa che stimo molto, alla quale ho sottoposto il paradosso subito dopo averlo “scoperto”, ha obiettato che le lingue nelle quali sono scritti i testi della Biblioteca sono in realtà entità a loro volta storiche (quindi ciò introdurrebbe una variabile tempo che renderebbe il numero dei volumi della Biblioteca non determinabile).
Ma ipotizziamo che le lettere di un alfabeto (poco importa se siano 21, 26 o altro numero) rappresentino in maniera sufficientemente efficace tutti i suoni che l'apparato vocale umano è in grado di produrre (parliamo di specie umana: certo si può dire che anche la specie umana è in evoluzione e in futuro i suoni producibili potrebbero essere diversi, ma allora direi che comunque la gamma dei suoni producibili in futuro non dovrebbe essere infinita...).
Bene. A questo punto anche le variazioni lessicali, grammaticali, sintattiche prodotte dal mutare storico delle lingue vengono "catturate" dall'ipotesi dell'insieme di tutte le possibili combinazioni di questo numero finito di caratteri moltiplicato esponenzialmente per il numero di caratteri per riga, righe per pagina eccetera. A un certo punto nasce una parola nuova? E' sicuramente già presente nella Biblioteca. Nasce una nuova forma grammaticale? Anche per questa vale lo stesso discorso.
Il punto è che se una forma linguistica è possibile (pronunciabile) allora esiste nella Biblioteca.
Altra obiezione potrebbe essere: perché i volumi devono avere 410 pagine e non di più, o di meno? Risponderei che occorre pensare a un numero sufficientemente alto di pagine per volume perché tale numero costituisce l'ampiezza dell'unità di senso che va ipotizzata se vogliamo parlare di opere d'arte, opere scientifiche eccetera. I due numeri importanti, per formulare il paradosso, sono il numero dei caratteri dell'alfabeto e il numero delle pagine per volume: è importante solo che siano numeri finiti e che corrispondano più o meno alla realtà degli alfabeti naturali e dei volumi nei quali solitamente si esprime l'ingegno umano, ma non è importante ovviamente di quali numeri si tratti.
Un'altra obiezione: un'opera potrebbe richiedere più volumi (ad esempio la Recherche di Proust). Possiamo sempre immaginare, però, che un'opera di tal genere esista comunque nella Biblioteca, anche se "spalmata" su un numero di volumi forse diverso (e forse l'ultimo potrebbe essere composto da cento pagine sensate, la fine dell'opera, e poi pagine bianche: ricordiamo che nei caratteri base occorre pensare anche lo spazio, e le pagine bianche si possono intendere come iterazione dello spazio).
Italo Nobile ha pubblicato sulla mia pagina Facebook alcune osservazioni critiche che riporto qui di seguito:
«Non sono d'accordo in quanto la quantità di cose esprimibili non è infinita se e solo se il tempo non è infinito e se e solo se la lunghezza delle stringhe che costituiscono i termini designanti oggetti sia finita. Tu accetti come premesse una certa interpretazione della biblioteca (ad es. in quella di Lasswitz ci sono anche le opere letterarie che attualmente non significano niente, ma nessuno può dire che non significhino qualcosa) e soprattutto neghi che ci possono essere serie infinite di segni a designare oggetti. In realtà con i segni a nostra disposizione possiamo designare infiniti oggetti dal momento che abbiamo i numeri. Questa tesi parte dal numero finito di segni e dal numero finito di pagine di un libro per inferire qualcosa sull'universo. Ma ciò significa mettere il carro davanti ai buoi. L'unica cosa che potremmo dire è che, nel caso di universo infinito (o con un numero infinito di oggetti) ad un certo punto ci potremmo trovare nella situazione per cui dobbiamo considerare degli oggetti nuovi come copie di oggetti già visti».
Provo a rispondere, o comunque a commentare a mia volta quanto dice Italo.
Sulla prima osservazione, che ipotizza un tempo infinito nel quale si possano esprimere cose infinite, direi questo: se partiamo dall'ipotesi di un tempo infinito nel quale esista una produzione infinita di testi significanti, resta il fatto che a un certo punto, esaurite le combinazioni possibili di tutti i segni entro un certo formato (numero di caratteri per pagina, numero di pagine per testo) siamo destinati a ripetere le stesse cose, quindi per quanto infinita la Biblioteca sarà ripetitiva, modulare...
Sulla "lunghezza delle stringhe" dei termini designanti mi vengono in mente i numeri irrazionali... Cosa analoga Italo dice più sotto quando ipotizza "serie infinite di segni a designare oggetti", e "con i segni a nostra disposizione possiamo designare infiniti oggetti dal momento che abbiamo i numeri."
In effetti qui mi pare che Italo colga un punto cruciale: nel paradosso della Biblioteca di Babele i numeri non sono considerati, ed è vero che i numeri sono di per sé intrisi di infinito, infinito stratificato, fra l'altro, a diversi livelli di potenzialità (come Cantor ci ha rivelato con la teoria dei numeri transfiniti). Resta il fatto che il linguaggio matematico ha un modo diverso di rapportarsi con la realtà rispetto al linguaggio verbale, e forse addirittura si potrebbe dire che il linguaggio matematico descrive, direttamente, oggetti "di altro tipo" rispetto alle cose fisiche, anche se ovviamente è fondamentale per la conoscenza del mondo fisico nel senso che descrive indirettamente situazioni e rapporti fra cose fisiche...
È vero che sono partito da una certa interpretazione della Biblioteca, ma ci tengo a chiarire bene un punto sul quale ho riflettuto molto. Il fatto che si ipotizzi un numero finito di segni grafici, che corrispondono a un numero finito di fonemi (e parliamo di linguaggio verbale) si fonda sulla realtà dei linguaggi naturali e anche sulla struttura dell'apparato vocale umano. Non possiamo produrre infiniti tipi di suoni. Il fatto che si prenda in considerazione un numero finito di righe/pagine di un testo non implica che si metta un limite fisso alla lunghezza di un testo, infatti un testo può essere espresso in più volumi della Biblioteca, ma significa che si considerano, nel paradosso, testi di senso compiuto, cioè testi finiti, per quanto lunghi possano essere.
L’ipotesi di un testo infinito (su cui Borges ha costruito un altro racconto, Il libro di sabbia) cade perché tale testo non avrebbe un senso determinabile, quindi non avrebbe senso.
Infine, all'obiezione di "mettere il carro davanti ai buoi" se partiamo da considerazioni sul linguaggio per arrivare a tesi sulla realtà, rispondo che è un procedimento tipico della filosofia, nelle sue aspirazioni metafisiche. Da Platone e Aristotele fino a Wittgenstein... non abbiamo sempre fatto così? (Del resto il linguaggio è esso stesso un "pezzo" di realtà. Una proposizione è un fatto che esprime un altro fatto…)


4. Conclusioni
Negare l'infinito reale, nella realtà fisica, equivale a credere nella conoscibilità, nella comprensibilità del mondo.
Perché dobbiamo credere all’ipotesi immaginativo-metafisica della Biblioteca di Babele? (cioè l’ipotesi che la quantità di ciò che è dicibile, esprimibile attraverso il linguaggio, sia finita.)
Perché un libro deve avere un numero di pagine finito? O anche: perché una frase non può essere infinita? Perché altrimenti il suo senso non sarebbe, per principio, comprensibile. Potremmo capirne solo le singole parti, ma non il tutto. Ma un senso incomprensibile equivale a una assenza di senso.
Resta sempre comunque pensabile, possibile, che la realtà (fisica) sia invece nel complesso inconoscibile, incomprensibile, quindi resta sempre possibile che sia infinita e senza senso.

Ma perché qualcosa che è, di fatto, conoscibile nelle sue singole parti dovrebbe essere inconoscibile nell'insieme? Noi abbiamo già sperimentato la conoscibilità di parti della realtà, quindi abbiamo ragionevoli motivi di credere che la realtà sia conoscibile e sensata anche nella sua totalità, quindi che sia finita.

6 gennaio 2015

Sulla rinascita della metafisica




Avvertenza
Questo post è una personale e parziale ricostruzione sintetica, a scopo didattico, della Seconda parte di Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri 2013) di Franca D'Agostini. I capitoli presi in esame sono: 6, 8, 10, 11 e le Conclusioni. Si tratta sostanzialmente, come si vedrà, di una collazione di lunghe citazioni dal testo, scelte secondo una certa linea di interesse. 
La scelta e la linea ricostruttiva non è stata approvata dall'autrice del libro, quindi me ne assumo interamente la responsabilità.
In fondo al post ho aggiunto, in grassetto, i sommari di tutti i capitoli della parte seconda, scritti dall'autrice (pubblicati nel blog Filosofia pubblica), in modo che sia possibile farsi un'idea di quanto il mio percorso ricostruttivo si discosti dall'impostazione del testo originale.
G.N.



Le tre fonti della metafisica, le domande sulla realtà, il significato di "reale", il problema epistemologico (cap. 6)

Qui D’Agostini fornisce un chiarimento essenziale sulle fonti su cui la ricerca metafisica può e deve basarsi. Innanzitutto non si può dimenticare il senso comune, inteso come «le credenze condivise che ci orientano nell’uso del linguaggio» o anche, in altri termini, «l’esperienza condivisa depositata nell’uso del linguaggio». Poi (ma sulla centralità del riferimento alla scienza cfr. cap. 8.) occorre la scienza, sempre aperta alla propria rivedibilità, e infine l’”evidenza soggettiva”.



Basta il senso comune? Credo di no. Un buon lavoro filosofico, specie in metafisica, non può dimenticare la scienza. Non soltanto perché con scienza intendiamo normalmente l’impresa umana di ricerca dell’oggettività (e in questo senso, suggerirei, la filosofia fa parte della scienza), ma anche perché la scienza – con tutti i suoi problemi e i suoi limiti – ci dà una buona parte dei contenuti del vero e del reale, che ci servono per ragionare e pensare.

Diceva Kant nei Sogni di un visionario: non puoi dire che esistono gli spiriti, perché il nostro linguaggio fisico (e si tratta di fisica dell’epoca di Kant) esclude la possibilità che due corpi possano essere situati nella stessa collocazione spazio- temporale. La scienza dunque contribuisce alla descrizione del “mondo in comune” che secondo Kant è oggetto della metafisica. E – se è buona scienza – aiuta a descrivere tale mondo, lasciando però aperta la rivedibilità, su cui appunto, di volta in volta, l’uso critico dei concetti R (realtà) e V (verità) dovrebbe intervenire.

Abbiamo dunque un primo orientamento metodologico: il metafisico, cioè colui che si occupa di esaminare filosoficamente la realtà, ha come punti di riferimento normativi, o se volete “fondamenti”, il senso comune e la scienza. Può anzi deve a volte entrare criticamente in dialogo con loro (specie se e quando, come vedremo, emergono conflitti); ma ne deve tenere conto. Entrambi infatti sono le principali “fonti” di cui ci serviamo per stabilire che cosa è reale e che cosa non lo è.

Esiste anche una terza fonte, che è considerata la prima e più importante dal punto di vista empirista: l’evidenza soggettiva.
Preferisco però usare un’altra espressione, che prendo da David Lewis: il de se nunc, che si tradurrebbe con “il su se stessi qui e ora”, espressione antipatica, in latino suona meglio. In pratica, vuol dire che la terza fonte che mi parla della realtà non sono tanto io, ma piuttosto di volta in volta un certo contenuto che riguarda il mio incontro con la realtà (per questo il contenuto in questione è de se, e non de re).

Il quadro è allora completo. Scienza, esperienza condivisa, de se nunc (osservazione empirica), sono le tre fonti di cui ci serviamo per stabilire che cosa è R e che cosa non lo è. Come vedremo, molte discussioni (non tutte) riguardano precisamente casi di conflitto tra le tre, oppure disaccordi tra teorie che stabiliscono un primato di una o dell’altra fonte, oppure i limiti di ciascuna di loro.

Le domande filosofiche relative alla realtà (tolta “la realtà esiste?”) possono essere tre:

I. [PROBLEMA CONCETTUALE] che cosa intendiamo quando usiamo la parola “realtà”, ossia attribuiamo i predicati (le proprietà) “è reale”, “esiste”, a qualche oggetto? [in nota:] Il mainstream analitico ritiene che l’esistenza non sia una proprietà, e conseguentemente non sia un predicato: ma questo punto di vista (che viene attribuito erroneamente a Kant) è estremamente discutibile. Bisogna ritenere piuttosto che ‘esistere’, ‘essere reale’ siano se mai predicati di un genere speciale. È questo in definitiva ciò che intendeva Aristotele inserendo la sostanza (prima e seconda) tra le categorie, che Severino Boezio chiamò per l’appunto praedicamenta. Ma di ciò meglio più avanti.

II. [PROBLEMA METAFISICO VERO E PROPRIO] che cosa è reale, esistente, e come è fatto?
III. [PROBLEMA EPISTEMOLOGICO] a quali condizioni possiamo stabilire che un oggetto è reale, esiste?

Queste tre domande circoscrivono la “questione del realismo” nelle possibili forme in cui può presentarsi. Tutte e tre le domande riguardano la metafisica intesa genericamente come riflessione filosofica sulla realtà. Ma solo le domande del tipo II sono domande metafisiche in senso stretto. E più precisamente, come si usa dire nella filosofia analitica: la domanda “che cosa esiste?” definisce il campo dell’ontologia e la domanda “come è fatto ciò che esiste?” definisce il campo della metafisica. Le altre non sono tanto di metafisica quanto di analisi concettuale (la I) e di epistemologia (la III).

in tutte e tre le analisi è facile che la filosofia debba incrociare i correlati scientifici. Nel primo caso l’analisi del concetto R da parte dei linguisti, nel secondo le analisi dei fisici, e nel terzo quelle degli psicologi o degli scienziati cognitivi, e anche eventualmente degli antropologi, o dei sociologi ecc.

Il vero problema del «realismo» come tale, è solo il secondo, cioè la prospettiva della metafisica. Ed è in relazione alle domande di tipo II che il ricorso alla scienza sembra inaggirabile: non è tanto facile giustificare per esempio la mia tesi secondo cui il tuo mal di testa non è R, mentre questo tavolo lo è, se non mi appello alla fisica e alla biologia, per esempio dicendo: è vero che hai mal di testa, ma l’“oggetto” denominato “tuo mal di testa” non c’è propriamente; se mai, sopravviene su un certo stato biochimico dell’oggetto fisico che è il tuo corpo.

Ma sia i neokantiani (in senso ampio) sia i neopositivisti, pur con articolazioni diverse delle loro posizioni, interpretano questo punto in senso esclusivo: non è più la filosofia che deve occuparsi di realtà, perché ormai questo compito viene assolto dalle scienze.

[nota 12] “realtà” è il nome per indicare il predicato “x è reale”, e il predicato è il nome per indicare la proprietà delle cose che sono “reali”. Dunque il concetto di realtà è la funzione linguistica e se volete mentale che intende riferirsi a (o esprimere) tale proprietà.
C’è un’espressione di Charles S. Peirce che è utile adottare: il reale è l’It, l’esso generico non specificato che colgo intorno a me. Apro gli occhi (mi sveglio?), ed ecco cose alberi strade fiori città ecc. È almeno inizialmente un utile chiarimento: con R intendo il tutto in cui sto, che mi circonda e mi costituisce. […]
Incontro continuamente l’It, anzi ci sto dentro, e come dire ci affogo, ma perlopiù non lo vedo affatto, e non soltanto non lo vedo, ma non ci penso affatto. […] Vediamo allora che il concetto R, come il concetto V (verità), e altri superconcetti filosofici, è dispensabile: possiamo benissimo non usarlo, né pensarci.

Ma possiamo, visto che è dispensabile, sbarazzarci di R?

Sappiamo già come funziona l’argomento: se dici: “sbarazziamoci del concetto R” devi aver notato delle circostanze effettive, appunto R, che ti hanno fatto ritenere che R sia concetto da non usarsi. […] Infatti: R e V sono concetti dispensabili, ma misteriosamente sono anche ubiqui, stanno ovunque nei nostri discorsi e ragionamenti.

Ecco allora la trappola della metafisica: che R e V e altri superconcetti che ne derivano sono confusi (per eccesso di vastità), confondenti (perché non si vedono mai ma se mai si “vivono”), e per di più non riusciamo neppure a sbarazzarcene!

Che fare? L’unica soluzione è capire perché mai li usiamo e a che cosa esattamente servono.

Il concetto R serve a discutere, nei contesti in cui qualcuno parla di cose che non esistono oppure afferma l’inesistenza di cose reali.

Ecco dunque il punto: concetti come R e V sono concetti discussivi, e inferenziali, in una parola, se si vuole scettici, in quanto appartengono alla skepsis, la ricerca. […]
la filosofia, specie quella che si occupa dei concetti fondamentali di verità-realtà-bene, è un’arte critica, e di speciale utilità quando tutti discutono, non ci si capisce, e non si riesce a trovare un accordo: perché alcuni vengono ingannati, altri ingannano, e alcuni credono (o fingono) di sapere e non sanno.


R è il nome di due problemi
Ma il dato per noi cruciale, è che ci sono due fondamentali ragioni (scettiche) per cui R è stato creato.
La prima è che:

alcune cose sembrano esistere (essere R), e altre no, ma non è facile distinguere le une dalle altre, ed esistono (sono esistite) controversie su questo punto.

La seconda è:

tutto ciò che chiamo R sembra stare nel qui e ora della mia esperienza, dunque l’R non è realmente R, ma è piuttosto “mi risulta R”, o “credo che sia R”.

Notate che queste due ragioni, proprio perché sono ragioni scettiche, problematiche, sono anche due fondamentali difficoltà nell’assegnazione di R. Entrambe ci confermano ciò che bisognerebbe sempre ricordare: che i concetti filosofici sono nomi di problemi.

Il problema di come abbiamo accesso alla realtà (il “problema epistemologico”) è il problema di come superare il solipsismo, il soggettivismo, l’idealismo soggettivo, il fenomenismo scettico; in altri termini è il “problema del mondo esterno”.


È abbastanza facile vedere che il problema nasce dall’antico scetticismo empirista, vale a dire dalla metafisica basata sul de se nunc diventato unica fonte. E forse in questa prospettiva si vede già l’errore. Ma intanto, notate che l’idea di partenza è l’idea che sia impossibile “uscire” dal campo definito dell’esperienza, per esplorare che cosa c’è fuori. Ne segue che qualsiasi cosa io vi dica del “fuori” (della realtà come è in sé) potrebbe essere vero, e non avrete argomenti per dire “no, non è così”. È questo peraltro il tema capitale che porta l’empirista, saldamente collocato nel de se nunc, a sbarazzarsi della metafisica, ossia del pensiero del “fuori”. […]
Allora ecco la questione di fondo, segnalata dai metafisici eredi di Kant (e anzitutto da Hegel): che non usciamo dall’autocontraddizione fenomenista perché (e se) non abbiamo la metafisica, come disciplina o campo di ricerca; perché ci neghiamo il diritto di rivedere e ridiscutere proprio quella narrazione in fondo minoritaria che dice: solo il de se nunc è affidabile, tutto il resto sta “fuori”, e non è possibile pronunciarsi sul fuori.

Vediamo dunque l’utilità di ricordare le tre fonti della metafisica, di cui si è parlato in apertura: l’esperienza comune (depositata nel linguaggio), la scienza, e l’evidenza soggettiva. E vediamo anche la necessità di non considerare l’una dominante rispetto all’altra. Perché se deciderò che l’unica o la primaria fonte normativa in metafisica è l’io (specie inteso come soggettività empirica), mi trovo a dover amministrare un “fuori” che ho già descritto come tale, e che però vieto a chiunque altro di descrivere.

La fisica contamporanea è la nuova metafisica? Il realismo scientifico e il concetto di "scienza totale" (cap. 8)

Per rispondere alle domande propriamente metafisiche, di tipo II, si direbbe che la fonte primaria, in quanto ricerca di conoscenza oggettiva, sia la scienza. In questo capitolo D’Agostini, attraverso il ricorso alla nozione di “scienza totale”, chiarisce quale dovrebbe essere il corretto rapporto tra ricerca metafisica e ricerche scientifiche.



L’idea che spesso o in linea di massima le teorie scientifiche catturino la verità sulla realtà è non soltanto plausibile ma direi ineccepibile. Sarebbe davvero sorprendente se l’enorme apparato di controllo dei fatti che chiamiamo scienza non riuscisse mai a farlo, o vi riuscisse solo molto raramente. Se però ricordiamo che la domanda non è: “la scienza ci dice come è fatta la realtà?” ma: “dobbiamo fidarci dell’immagine scientifica della realtà?” emerge con chiarezza che il problema si pone a causa di un conflitto di affidabilità, e più propriamente a causa del fatto che la «struttura profonda» della realtà, così come ci è rivelata dalla scienza, in particolare dalla fisica, non coincide con l’immagine della realtà che ci è rivelata dalle comuni intuizioni empiriche. […]
Sembra emergere allora il primo dibattito propriamente metafisico, perché appunto riguarda la «struttura profonda» della realtà, così come è in sé, e non i nostri modi di conoscerla, o di giustificare le conoscenze che ne abbiamo. […]
[…] La questione (metafisica) non è se sia meglio credere alla scienza o al senso comune, o se gli oggetti che incontriamo nell’evidenza empirica e nella percezione ci siano, e siano quel che sembrano essere, ma quale sia la loro struttura interna e «indipendente» dal nostro modo di incontrarli (attraverso la percezione, o in qualsiasi altro modo). […]
Conviene soffermarsi sulla natura della domanda “gli oggetti esistenti sono quelli previsti dalla fisica, o quelli previsti dal senso comune?”.

Chi formula una domanda di questo tipo sta in verità chiedendo: “come è fatto ciò che esiste?” ma anche: “chi è autorizzato a dirmi come è fatto ciò che esiste, nel caso (come è il caso) sorgano risposte contrastanti?”. […]
È proprio su questa base in effetti che Heidegger e altri autori, nel trattare la «questione dell’essere», tendono ad associare questioni metafisiche e questioni metodologiche. E spesso, nel fare ciò, assumono una posizione critica nei confronti della scienza. Però non è tanto alla “scienza” come tale (incomprensibile astrazione) che dovrebbero opporsi, ma piuttosto all’idea che la scienza come apparato istituzionale sia l’unica e conclusiva depositaria della verità circa l’esistente. Ossia non possa essere esaminata criticamente, discussa e messa in dubbio. E questa idea non è coltivata né difesa da nessun “scienziato” dotato di ragione. […]
È vero che quel che incontriamo sono gli oggetti del senso comune, ma non è questo l’oggetto della metafisica, e non è questo che si richiedeva. […]
Invece, quando chiedo se e come questi oggetti esistano, e quale sia la loro costituzione interna, in base alla quale possiamo dire che sono esistenti, allora è naturale che io faccia riferimento alla fisica, o ad altre scienze. La risposta metodologica allora a mio avviso diventa più facile. Se domando: “come è fatta la realtà?” e voglio dare una risposta filosofica, ma scientifica (intendendo per scienza una ricerca basata sul «mondo in comune», come dice Kant, e non sulle mie esperienze individuali), allora devo certamente confrontarmi con la realtà così come è esaminata dalle altre scienze, ed essenzialmente dovrò dare fiducia alla fisica. […]
Se invece domando: “come è fatta la realtà che incontro nella vita quotidiana e nei miei confronti discussivi?” è chiaro che la risposta è diversa. Ma è anche diverso il territorio entro cui mi muovo nel cercare di rispondere, ossia l’episteme, l’oggetto della mia ricerca. Nel primo caso mi sto occupando di metafisica. Nel secondo mi sto occupando di quella zona di intersezione tra metafisica ed epistemologia che è precisamente il terreno messo in luce da Kant con la sua filosofia trascendentale.

Quanto alla «struttura profonda» della realtà, come si è visto la scienza ha di solito un primato. Se emerge una divergenza, occorrerà una riflessione filosofica, che cerchi di capire come in definitiva stanno le cose. E si è suggerito che chi elude la scienza in questo ambito sostanzialmente esce dalla metafisica, ovvero non si interessa più della struttura interna della realtà (come è fatta la realtà) ma finisce per affrontare l’altro problema (il III): come possiamo conoscerla.

Ma a quale scienza ci riferiamo quando parliamo di un primato della scienza in metafisica? La prima intuizione è che tale primato vale se la scienza stessa non esclude la metafisica, o meglio non taglia fuori la possibilità autocorrettiva e autoriflessiva (che le provenga dalla filosofia o da lei stessa). La mediazione tra senso comune e scienza fornita dalla filosofia può rivelare l’errore, evitando con ciò che il potere della scienza travalichi i suoi stessi compiti e obiettivi.

Ma più propriamente, il concetto di «scienza totale» spiega bene quale sia la “scienza” di cui parliamo in metafisica quando diciamo che la scienza ci offre informazioni sulla realtà. La scienza totale è semplicemente l’impresa scientifica nella sua totalità, non è solo il deposito di conoscenze acquisite da una certa scienza, in una certa fase di sviluppo. La scienza totale è per esempio per i fisicalisti la «fisica completa», l’insieme compiuto di tutte le cognizioni fisiche.

La scienza come fatto storicamente determinato può contenere falsità ed errori, e può dirci esistenti cose che non esistono, o negare l’esistenza di cose che invece esistono a tutti gli effetti. Può anche essere inconsistente, ossia contenere contraddizioni e dissonanze, ed è facile che sia così, perché la quantità di diverse scienze che oggi abitano il territorio della ragione è davvero ampia, e sono diversificati sia gli oggetti sia i metodi. Questo però capita anche al senso comune, e anche al de se nunc. Ci sono errori e dissonanze tanto nella scienza quanto nel “sistema” del senso comune, quanto nelle percezioni di un individuo singolo. L’aspetto interessante della metafisica consiste precisamente nella mediazione dialettica che opera sulle tre fonti.

Nell’ascoltare la scienza circa il concetto R dobbiamo ricordare allora che è per ovvie ragioni incompleta, deve ancora capire e conquistare molte cose. Dunque quando parliamo di scienza in metafisica ci confrontiamo nei singoli casi con la scienza attuale, ma la concepiamo (idealtipicamente) come “scienza completa”.

Il realismo presupposto da qualsiasi argomento o discussione (cap. 10)



Se x è un fatto allora x sussiste indipendentemente dai discorsi e pensieri che ne parlano [nella nota 3 del Cap. 10]



1. qualcosa è reale, o anche: esistono fatti;
2. c’è una sola descrizione vera dei fatti;
3. possiamo a volte formulare descrizioni vere dei fatti e riconoscere come vera o falsa una data descrizione. […]

[…] quando ragioniamo e discutiamo usiamo le funzioni concettuali “questo è vero”, “questo è un fatto”, “le cose stanno così” esattamente in questo modo. Dunque le funzioni di cui sopra sono particolarmente importanti in logica, e in generale nella vita pubblica e privata degli esseri umani liberi, visto che dai ragionamenti più o meno sbagliati o giusti di un individuo libero dipendono le sue decisioni e azioni. [in nota:] Di qui il legame molto stretto che si determina tra «filosofia prima» e democrazia. […]
Tutto ciò è già molto chiaro nel libro Gamma della Metafisica di Aristotele. Lì appare anche con chiarezza che non soltanto l’antirealismo, ma in generale ogni posizione metateorica negativa (relativismo, scetticismo ecc.) è destinata all’autocontraddizione. Ed è destinata all’autocontraddizione, se e in quanto si accetta il quadro logico-ontologico definito dalle tre tesi. Ma tale quadro è (per Aristotele) inaggirabile, se si intende argomentare le proprie tesi in modo valido. Ecco dunque che la dimostrazione non è circolare: il realismo metafisico (in questa versione preliminare) si basa sulla logica, e la logica trae origine dalla necessità di ragionare, discutere, riflettere, argomentare, per la vita di un individuo libero. Attenzione: parliamo di logica non come apparato consolidato di dottrine più o meno “classiche”, ma come uso delle forme logiche.
[…] si tratta ora di chiarire meglio perché e come si determini questo passaggio tipicamente aristotelico dalla logica alla metafisica. […]
Il carattere irriducibile di R è legato a una visione del linguaggio che non sarebbe sbagliato definire aristotelica, e che è (almeno per metà) alla base della filosofia analitica. Si tratta di quella «semantica veritativa» (Habermas) o «concezione referenzialistica del linguaggio» che va incontro a una critica generalizzata, almeno a partire dagli anni trenta del Novecento. […]
Però, la base del lavoro logico, in tutte le versioni, rimane proprio questa idea «descrittivista» del linguaggio. L’assunto da cui proviene ogni tipo di logica è che tutte le volte che parliamo, o pensiamo, ci riferiamo in qualche modo a entità di qualche genere, che costituiscono il contenuto dei discorsi-pensieri.

[…] basta semplicemente ammettere:

– che le realtà che rendono veri i nostri enunciati sono di diverso tipo (fatti atomici, varie collezioni di fatti atomici, fatti matematici o linguistici, fatti modali); [in nota:]Non per nulla, è tenendo ferma l’impostazione logico-metafisica basilare che sono sorte le logiche modali, condizionali, paracomplete e paraconsistenti. E anche la logica induttiva, probabilistica, stabilisce uno stesso legame fonda- mentale realtà-linguaggio, benché (come la logica fuzzy) renda sfumata, «gradualistica» l’assegnazione dei valori di verità.
– che a volte catturiamo tali realtà direttamente, per evidenza empirica, a volte per inferenza, o per ricombinazione a partire dal mondo attuale.

Basta aprire l’estensione di R, ovvero basta aprire il campo della metafisica, per ammettere che ogni asserzione coinvolge la realtà, anche se non soltanto la realtà. […] basta, almeno inizialmente, un semplice e ovvio pluralismo ontologico, se si vuole: la classica equivocità dell’essere. […]
Un antiaristotelico direbbe: ma perché incominciare dalla logica? Ho già in parte risposto a questa domanda, suggerendo che le nozioni di realtà e verità alla base dell’elenchos sono di estrema importanza nelle discussioni.

Il punto di cui spesso ho parlato, e su cui dobbiamo sempre soffermarci, è che i concetti V e R non hanno di per sé stessi nessuna rilevanza, fino a quando non entrano nelle discussioni, nei ragionamenti, nelle ricerche scientifiche, nelle riflessioni poliziesche, politiche ecc. Come ho detto ripetutamente, sono concetti inferenziali e discussivi. Ne consegue che per quanto il regno «referenzialistico» della logica non esaurisca il campo degli usi del linguaggio, certo è che tale regno è precisamente il principale da noi frequentato quando discutiamo, cerchiamo, riflettiamo ecc.

È l’apparato logico che fa capo alla verità (realistica) che ci guida nel formulare e valutare i ragionamenti, quando esistono disaccordi, dilemmi e perplessità. Si può dire dunque che la metafisica nasce dalla logica, e la logica nasce dal disaccordo, dalla perplessità e dal dubbio: proprio da quel territorio della skepsis da cui si generano le formule del to on, to alethes, to agathon.

Essere è un predicato?
[…] il nostro linguaggio segnala una differenza tra il “c’è” e l’“esiste”. Ci sono scimmie parlanti e altamente evolute, nel film Il pianeta delle scimmie, ma nel nostro mondo (a quanto so) non ci sono. In effetti tanto Aristotele quanto Kant ci danno versioni diverse della storia per cui l’esistenza non è mai predicato-proprietà. Detto semplicemente: c’è un uso predicativo e un uso esistenziale del verbo essere e quando parlo di R maiuscola uso il secondo.

In ogni caso, trattare il concetto R come un predicato (come suggerisce Tugendhat: cfr. cap. 11), è un grande vantaggio per l’analisi concettuale: ci permette di riflettere liberamente sulle condizioni di asseribilità di R. Ci possiamo chiedere allora: quando diciamo che una cosa è reale? quando abbiamo diritto di dirlo, e che cosa intendiamo nel dirlo? L’ipotesi che difendo è che R significhi: 
stare-essere presente nel mondo attuale, ossia in questo mondo in comune in cui viviamo pensiamo e di cui parliamo quando ragioniamo e discutiamo, e descritto dalla fisica come mondo spazio-temporale.

[…] tendo a prediligere l’idea che tutto c’è, ma solo qualcosa esiste – è reale: un’idea che come vedremo è tipica dei meinongiani. […]
Che cosa è reale e che cosa non lo è? Una volta assodato che i fatti sono di diversa natura e che gli esistenti che entrano in tali fatti possono essere di diverso tipo, forse basta stabilire che l’esistente in senso proprio e primario ci è dato da quel che dice la fisica: dunque esistono anzitutto i fatti fisici, e tutto il resto sopravviene sui fatti fisici. […]
La natura primariamente fisica dei fatti non nega l’esistenza di fatti spirituali sopravvenienti (o «emergenti») sui fisici. E neppure nega l’idea che i fatti fisici possano essere anche in qualche aspetto diversi dai fatti riconosciuti tali dalla scienza attuale. Come si è detto, i fisicalisti di oggi si riferiscono alla «fisica completa», dunque anche i risultati metafisici della fisica, benché categorici, risultano provvisori, se visti nella prospettiva della “scienza totale”.

 Morte e rinascita della metafisica (cap. 11)

I neokantiani ritengono che le domande metafisiche non abbiano risposte teoriche se non quelle particolari ed empiriche della scienza.
I neopositivisti ritengono che le domande metafisiche siano mal poste e fuorvianti.

il divieto neokantiano e neopositivista di occuparsi di metafisica, ossia di indagare la natura della realtà con strumenti che eccedono quelli della scienza empirica, e di chiedersi come sia fatto, realmente, ciò che chiamiamo “esistente” o “reale”, ha agito pesantemente nella tradizione filosofica. Tanto è vero che ancora oggi c’è chi associa alla parola «metafisica» l’idea di una ricerca insensata o mistica, che rincorre vanamente la trascendenza e prende sul serio i sogni dei visionari, oppure vuole sostituirsi alla scienza nell’indagare i fenomeni.

Da alcuni decenni però è in atto una controtendenza, specie nella filosofia analitica, dove la metafisica, di nome e di fatto, è decisamente rifiorita. Come si tratterà ora di vedere, la metafisica contemporanea ha trovato negli strumenti della logica moderna (proprio quelli elaborati dalla tradizione nominalmente più antimetafisica: il neopositivismo) nuove risorse di metodo; si è trattato, come si è accennato, di una vera e propria rinascita della metafisica dallo spirito della logica. […]
La metafisica analitica contemporanea conferma alla perfezione quanto si è suggerito: che la metafisica nasce dalla logica.

[…] la rinascita è avvenuta esattamente secondo le linee previste da Tugendhat (anche se Tugendhat non aveva ancora notizia di alcune teorie più recenti). […]
Le acquisizioni della logica moderna che secondo Tugendhat consentono di rilanciare e impostare in modo nuovo la metafisica sono le seguenti:

– una visione del tutto nuova dell’oggetto (inteso come termine singolare);
– una visione del tutto nuova del concetto (inteso come nome di un predicato);
– una visione del tutto nuova della nozione di universalità (o «formalizzazione», o «astrazione»: come subordinazione tipologica o concettuale, ossia predicati che parlano di predicati). […]
La tesi di Tugendhat si può confermare e anzi estendere, aggiungendo:
– una visione del tutto nuova di “mondo” come insieme di mondi possibili […]
In effetti la rinascita della metafisica nella filosofia A si deve storicamente soprattutto se non esclusivamente alla svolta determinata dalla logica moderna, e alla sua implicita concezione del mondo-mondi. Più precisamente, io sostengo, si deve allo spirito della logica: a quel che la «nuova logica» (secondo l’espressione di Russell) concettualmente e praticamente ha rappresentato per la filosofia. […]
L’intuizione di Tugendhat si è confermata, storicamente, secondo tre linee principali:
A. il Tractatus, o la metafisica dell’atomismo logico;
B. la teoria della quantificazione;
C. la teoria dei mondi possibili.
[…]
Il Tractatus si presenta come un’opera anti-metafisica ma è leggibile esattamente in modo opposto. Lì il giovane Wittgenstein spiega come è fatto il «mondo» previsto dalla logica di Frege e Russell (e dalla filosofia dell’atomismo logico di Russell). In questo modo, secondo Armstrong, spiega come è fatto il mondo in generale. Vale a dire: il mondo è fatto di fatti-stati di cose, ovvero combinazioni di oggetti (per esempio il gatto di Gilles) + proprietà-relazioni (per esempio essere sul divano). […] Questa acquisizione prevede due chiarimenti caratteristici dell’“ontologia” logica:

oggetto è qualsiasi cosa che possa avere proprietà;
proprietà sono modi d’essere (o stare in relazione, o agire) degli oggetti.

Ora vediamo bene che da qui (come per Aristotele) si apre lo spazio della metafisica. E la metafisica si presenta quando ci si chiede quali (tipi di) oggetti esistano; se le proprietà esistano come tali; se le proprietà siano universali o particolari; se esistano proprietà essenziali o intrinseche; quali tipi di proprietà esistano e quali non esistano. L’aver accettato l’evidenza logico-linguistica delle proprietà, e degli oggetti, fa (ri)nascere il problema metafisico. […]
B. […] Quine stabilisce che esserci (= esistere?) è espresso dal quantificatore esistenziale, il “c’è qualche x”. […] ne segue anche che l’ontologia di una teoria (quel che una teoria considera esistente) si stabilisce guardando “su che cosa quantifica”.

Quella di Quine però non è né metafisica (riflessione sulla realtà) né ontologia (riflessione su che cosa effettivamente c’è o esiste), ma metaontologia, come ha sostenuto ripetutamente il suo seguace Van Inwagen. Le sue tesi sono servite a fornire un metodo per esaminare gli impegni ontologici delle teorie, e a precisare la nozione di ontologia come esame di ciò che c’è (per una teoria). Ma non dicono nulla su ciò che c’è realmente, e in generale, né su come è fatto. Simili questioni (che a volte si chiamano di «ontologia materiale») per Quine sono di pertinenza della scienza. La filosofia si limita a raffrontare le ontologie, ovvero a effettuare «proiezioni» ontologiche.

Questo ci dice che Quine in metafisica è ancora neopositivista-neokantiano: per lui in fondo non c’è risposta filosofica alla domanda sulla realtà. […]
C. […] Forse il maggior contributo alla metafisica (e la sua più vistosa rinascita) si è avuto precisamente a partire dalla logica modale. Ed è anzitutto Saul Kripke a vedere nella semantica dei mondi possibili una svolta per la metafisica. […]
La semantica della logica modale, che prevede mondi in cui le cose sono diverse da come sono, non serve soltanto a valutare la validità di ragionamenti del tipo: “se avessi 20 000 euro potrei comprarmi quella macchina, ma non li ho dunque non posso comprarla”, serve anche a impostare in modo nuovo e molto più efficace le questioni metafisiche di fondo. Per esempio (cfr. § 12.4): le questioni dell’identità, del rapporto oggetti-proprietà, dell’essenzialismo. Questa tazza potrebbe avere proprietà diverse (essere più grande, rossa invece che bianca ecc.), ma se non fosse concava, cesserebbe di essere una tazza (quello che è), il che significa che concavo è essenziale all’essere tazza: in tutti i mondi possibili questa tazza è concava, se non è concava non è più quello che è.

Quali sono i vantaggi della metafisica sorta dalla logica?

La vera opportunità della metafisica sorta dalla logica è che consente di lasciare aperto lo spazio dei fatti senza vincolarlo a postulati epistemologici. Per esempio, postulati di tipo empiristico, visto che esistono – aleticamente – fatti osservabili o verificabili ma anche fatti matematici, astratti, formali, probabili, congetturali, possibili ecc. […]
Quello che si ottiene sostanzialmente è un alleggerimento della nozione di fatto. È questo, io direi, lo spirito della logica: l’apertura del mondo ai mondi possibili e pensabili.

Consideriamo la famigerata tesi di Al di là del bene e del male: «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Perché Nietzsche dice questo? […] a ben guardare dice questo anche perché con “fatto” intende qualcosa di molto pesante e irriducibile, coltiva cioè un’idea di «realtà in sé» come una specie di «roccia sotto la neve», come dice Hegel: una base durissima e inamovibile, l’evidenza «inemendabile», che non ha alcun rapporto con il fragile apparato (neve) delle conoscenze umane. Però considerare così la realtà significa, come fa lo pseudokantiano, vederla nella nostra prospettiva, nella prospettiva della conoscenza.
La realtà in sé invece, dice Hegel, “è il vivente pane della ragione” [Rapporto dello scetticismo con la filosofia, a cura di N. Merker, Laterza, Bari 1970, p. 69 (ed. or. 1802)], ciò che eminentemente è vivo e si muove, e ciò di cui la ragione sempre si nutre.
È chiaro dunque che l’errore consiste nel restringere il concetto di realtà sulla base delle cognizioni che abbiamo circa la realtà, e stabilire che i predicati “è un fatto”, “è reale” debbano assegnarsi solo a quanto ci risulta essere reale (o inemendabile che dir si voglia).

In pratica, quel che bisognerebbe suggerire, è che le condizioni dell’assegnazione di “è vero”, “esiste”, “è reale” siano mantenute, ma senza restringere il loro spazio di applicazione solo a ciò che ci risulta sul piano empirico-sensoriale, o sul piano della scienza “incompleta”. Questa apertura non coincide affatto, si noti, con l’idea che esistono gli spiriti, o qualsiasi altra sciocchezza propagata dagli architetti dei «mondi ideali campati in aria», come dice Kant. Piuttosto, consiste nell’ammettere tra i “fatti” che rendono veri i nostri enunciati tipi di fattualità anche non strettamente empirica: per esempio i fatti probabili, o possibili (stabiliti per calcolo e inferenza a partire da fatti attuali), le fattualità scientifiche non osservabili, ma che hanno effetti osservabili (attuali o possibili), le fattualità riguardanti comportamenti e credenze collettive ecc. Era questa in definitiva la procedura di Aristotele, il quale ricordava la fondazione empirica delle conoscenze e dell’esperienza, ma ammetteva anche l’equivocità dell’essere, il fatto che l’essere si dice «in molti modi». Il che non vuol dire, è ovvio, che sull’essere si possa dire qualsiasi cosa, o che esistano più descrizioni vere di uno stesso fatto, ma che attribuiamo “esiste”, “c’è”, a cose di diverso tipo.

Conclusioni
[…] il mainstream della cultura filosofica contemporanea non soffre tanto di antirealismo o nichilismo che dir si voglia, ma piuttosto di scarsa consapevolezza filosofica, ovvero ha le idee tutto sommato confuse su come funzionino i concetti di realtà, verità, bene, e i loro derivati e sinonimi, e quali siano le domande che li riguardano. Di qui è emersa anche una «questione» sotterranea, che almeno allo stato attuale costituisce e ha costituito a lungo il vero punto controverso nelle dispute riguardanti il concetto di essere (ed esserci, esistere, essere reale): la questione della metafisica, vale a dire, anzitutto, possiamo-dobbiamo davvero interrogarci sulla realtà? Ha senso farlo? Non dobbiamo piuttosto lasciare le domande di cui sopra [Come abbiamo accesso alla realtà? Come è fatta esattamente la realtà?] nelle mani particolari, serie e specialistiche, delle scienze?

[…]
Dall’inizio del Novecento a oggi (o quasi), analitici neopositivisti (e loro eredi) e continentali neokantiani (e loro eredi) unanimemente ci dicono che dobbiamo lasciare le domande sulla realtà se mai alla scienza. E poi ci dicono che comunque non possiamo porre la domanda in generale o dobbiamo al più adattarci a rispondere a domandine circoscritte, del tipo: di che cosa (di quali oggetti) esattamente parla la teoria T1? quale è la differenza tra l’«ontologia» della teoria T1 e quella della T2?

Nessun antirealismo dunque, nessun postmodernismo o antilluminismo, ma piuttosto antimetafisica, o meglio, e più o meno consapevolmente e direttamente, antifilosofia.

[…]
L’idea che la questione del realismo sia in realtà questione della metafisica, e poi in definitiva questione della filosofia (prima), del suo assetto scientifico, e del suo adattarsi o meno all’assetto scientifico delle conoscenze, è uno dei fondamentali Leitmotiv dell’heideggerismo, in tutta la sua storia. Non per nulla le questioni ontologiche si tramutano spesso per i pensatori continentali di quella tradizione in questioni meta-filosofiche, e giungono a toccare la problematica della scienza.

Nasce allora dal cuore stesso del problema del realismo (del to on) una specie di guerra culturale tra scienza e filosofia, che occupa una letteratura sterminata, e che si collega a una quantità di altre «questioni» di contorno.

[…]
si può rinunciare ai due sbocchi […]: rinvio alla pratica (in particolare neokantismo) e rinvio alla scienza (in particolare neopositivismo). La domanda sul to on può tornare alla filosofia.

[…]
L’importanza della nuova metafisica sta piuttosto nel fatto che consente quell’alleggerimento della nozione di fattualità che è la richiesta tipica della metafisica, in Aristotele come in Kant, e che nello «spirito» della logica si manifesta con una chiarezza lampante. Nella logica i fatti o stati di cose sono di svariatissimi tipi: l’unico loro requisito consiste nella capacità di rendere veri (o falsi) gli enunciati che ne parlano. E poiché i fatti che rendono vero sono fatti di oggetti e proprietà, e gli uni e le altre sono di qualsivoglia genere, si apre uno spazio vastissimo per la riflessione e la discussione metafisica: si può sostenere che tutto esiste, o che non esistono alcuni oggetti, che esistono solo oggetti fisici, che esistono solo proprietà naturali, si può sostenere che gli oggetti non esistono come tali, ma sono solo fasci o grappoli di proprietà, si può sostenere che le proprietà esistono come universali, o particolari.

[…]
forse il nesso tra logica e metafisica non ci condanna, ma ci salva.

Ci salva anzitutto, come riteneva Tugendhat, dandoci strumenti analitici nuovi per valutare la realtà del «mondo in comune», senza abbandonarci a quelle «architetture di mondi ideali campati in aria» che preoccupavano Kant. In secondo luogo ci salva dandoci una immagine minimale del mondo, composto di oggetti e proprietà, in cui possiamo ritrovarci e riconoscerci, visto che proprio di questo ci parla il linguaggio che condividiamo. In terzo luogo, e soprattutto se si tiene conto delle “scoperte” delle logiche non classiche in metafisica (e della teoria del ragionamento probabile e decisionale in epistemologia), ci dà anche una serie di strumenti scettici per riconoscere le falsificazioni gli errori e gli inganni che un realismo furbo e limitativo potrebbe produrre, e la varietà dei casi su cui ragioniamo e discutiamo.

Infine, ci aiuta ad aprire la considerazione del mondo attuale, implicata nella scienza, e nella nostra stessa vita privata e pubblica, alla vastità dei mondi possibili che di fatto costituiscono il mondo, e che possiamo “ricombinare” immaginativamente, a partire dal nostro mondo in comune.

[…]
I saggi neopositivisti e neokantiani ci vietavano di interrogarci sulla realtà perché loro stessi erano prigionieri di una concezione della realtà data per presupposta, e dogmaticamente asserita come indiscutibile.


Cap. 6 – Una questione non controversa

Che cosa è “la questione del realismo”? che cosa ci chiediamo quando ci
interroghiamo sulla realtà?
I problemi filosofici relativi alla realtà non riguardano l’esistenza della realtà (e
neppure a ben guardare la sua “indipendenza”), ma piuttosto 1. come è fatta, 2.
come vi abbiamo accesso, 3. che cosa intendiamo dicendo “questo è reale”, “questo
esiste”. Vengono brevemente affrontate le questioni 2 e 3 (epistemologiche e di
analisi concettuale), mentre la questione 1 (metafisica) sarà oggetto dei capitoli
successivi. Si chiarisce anche la distinzione tra realismo metodologico e realismo
metafisico, e si dissolve la falsa controversia tra realisti e antirealisti metodologici.


Cap. 7 – Strani realismi

Prende in esame i dibattiti analitici contemporanei relativi alla “dipendenza”
della realtà dalla mente o dagli schemi concettuali, mostrando che la tesi della
dipendenza nelle diverse versioni ricade sotto gli argomenti confutatori, fissati da
Aristotele nel IV libro della Metafisica. Si chiarisce anche che secondo chi scrive
non esistono propriamente realismi “modesti” o “moderati”. Il realismo non è una
posizione da “sì, però”, ma piuttosto da “tutto o niente”; e il niente cade fuori dalla
filosofia: è gioco culturale, oppure critica della metafisica, oppure anti-filosofia.


Cap. 8 – Realismo scientifico

Esplora i principali dibattiti sul realismo scientifico. Il primo: la scienza è
garante di verità realistica? Il secondo: la realtà di cui ci parla la fisica è la vera
realtà, o è realtà piuttosto quella del senso comune? Mostra che esiste
effettivamente un certo primato della scienza in metafisica, ma la scienza di cui si
tratta è la «scienza totale» (concetto essenziale per i realisti contemporanei,
variamente teorizzato, in particolare da Armstrong e Lewis).


Cap. 9 – Verità e realismo

Esamina la discussione su verità e realismo: anzitutto Dummett, e il confronto
tra epistemicisti (‘vero’ equivale a dimostrato, verificato, giustificato) e realisti
(‘vero’ è come stanno le cose). La discussione contrappone l’antirealismo
verificazionista al realismo semantico, ma non ha alcun rapporto con l’antirealismo
metafisico. Si specifica che il realismo semantico ha ad avviso di chi scrive un
primato oggettivo. Si esplora quindi il «realismo aletico», di W. Alston e altri,
secondo cui la tesi “esistono fatti che rendono veri enunciati” è una tesi minimale
inaggirabile. Si nota che il realismo aletico contiene già una forma preliminare di
realismo metafisico: quella forma che è la base metodologica del realismo
semantico (criticato da Dummett).


Cap. 10 – L’unico realismo possibile

Presenta le linee preliminari del realismo di chi scrive. Incomincia con la
fissazione delle tre tesi: 1. esiste una realtà, 2. esiste una sola descrizione vera della
realtà, 3. a volte possiamo formulare descrizioni vere, e riconoscere come vera una
descrizione. Dimostra che sono an-elenctiche, cioè non confutabili, stando ai
significati di “verità” (V) e “realtà” (R) che comunemente usiamo. Questi
significati di V e R sono alla base della logica (come teoria formale o informale
del ragionamento valido), e pertanto sono alla base di tutte le nostre interazioni
discussive. Esiste dunque un obbligo cognitivo e discussivo che ci vincola a tenere
conto della verità realistica. Questo obbligo non è in sé una metafisica, ma
costituisce la premessa per la riflessione metafisica.
Si presentano allora una serie di posizioni di dettaglio relative a: - che cosa è
reale-esistente, e come funziona la proprietà-predicato “x è reale”; - che cosa è un
“fatto”, e come sia fatto; - quali tipi di fatti esistano.


Cap. 11 – La rinascita della metafisica dallo spirito della logica

Si offre un quadro della rinascita attuale della metafisica nella filosofia
analitica, distinguendo le tre linee, basate: sull’ontologia del Tractatus; sulla teoria
della quantificazione di Quine; sulla semantica dei mondi possibili. Si mostra che
tutte convergono nel confermare lo «spirito» della logica come spirito di
alleggerimento della metafisica.


Cap. 12 – Realismi realmente nuovi

Esamina tre teorie contemporanee che dimostrano le opportunità della nuova
metafisica in relazione alla problematica del realismo: il noneismo di Graham
Priest (la teoria secondo cui ci sono oggetti che non esistono); il realismo degli
universali di David M. Armstrong (secondo cui esistono proprietà universali in
rem); il realismo modale di David K. Lewis (secondo cui i mondi possibili
esistono, esattamente come esiste il mondo attuale). Si fanno vedere anche le
opportunità di una forma (non necessariamente metafisica) di realismo modale per
la filosofia politica.