Un giorno Dorothy Parker, poetessa e scrittrice americana, disse che ormai i bambini, più che essere «cresciuti», sono «incitati»: li si nutre, li si sprona, li si applaude. Ogni giorno, i genitori ripetono loro che sono «speciali», «unici», «fantastici».
Ogni giorno, però, li spingono poi anche a fare meglio, a non accontentarsi mai, a diventare sempre i migliori. «E allora?», mi chiede Andrea che non riesce a capire dove voglio andare a parare questa volta. «Che problema c’è? Fanno bene.
In un mondo sempre più competitivo come il nostro, è importante che i genitori preparino i figli a battersi sempre e a non scoraggiarsi mai. Non pensi che l’amore sia anche questo?». Ma il problema, per riprendere i termini di Andrea, è proprio questo: l’amore non pretende, non istiga, non ricatta; l’amore è indipendente dai risultati acquisiti e dagli sforzi; l’amore non è mai qualcosa che si merita o si demerita. O c’è – e allora poco importano i risultati scolastici, i concorsi e la professione che si sceglie di esercitare un giorno. Oppure non c’è – e allora anche se ce la si mette tutta per essere sempre i migliori, ci sarà sempre qualcosa che manca, che non va bene, che si potrebbe fare meglio.
Ecco dov’è il problema! Ed ecco perché bisogna opporsi a questa tendenza tutta contemporanea «all’amore meritocratico». Ti amo, se. Ti amo, quando. Ti amo, ma. Un amore talmente condizionato che rischia di svanire se non si è capaci di conformarsi alle aspettative di chi dice di amarci «se», «quando», «ma». «Ma l’amore non è fatto anche di “no” e di “regole”? Non sei tu stessa a dire che, senza punti di riferimento e senza norme, i bimbi vanno allo sbaraglio e non li si aiuta a diventare grandi?», Andrea insiste.
Questa volta non ha molta voglia di darmi ragione. E dopo un po’ aggiunge anche che, a forza di frequentare i politici, sto diventando anch’io demagogica e populista. Ma l’amore incondizionato dei genitori, quello che non può essere né conquistato né controllato, non c’entra niente con la demagogia. «Se c’è, è come una benedizione», scriveva già Erich Fromm. «Se non c’è, è come se tutta la bellezza fosse uscita dalla vita». E il rischio di fronte al quale ci troviamo oggi è proprio quello di far uscire dalla vita la bellezza, trasformando l’amore in qualcosa di talmente fragile che, dopo un po’, si finisce con il non crederci più.
Che cosa possono pensare dell’amore tutti quei bambini che crescono convinti che, per essere amati, devono essere i primi della classe, parlare perfettamente l’inglese e il francese, vincere le gare di nuoto o essere selezionati nelle migliori squadre di calcio? Come fanno a credere di essere amati per loro stessi, indipendentemente da quello che fanno, anche se sbagliano, non sono i migliori, si inceppano? Andrea comincia ad annuire. In fondo, è d’accordo con me. E mentre lo ammette, mi racconta che anche lui, quando era piccolo, era terrorizzato all’idea che la madre potesse smettere di amarlo. Se si pensa che l’amore si meriti, d’altronde, è inevitabile aver paura. E immaginare che ci si debba per forza comportare in un certo modo per esserne degni. Con effetti disastrosi a livello esistenziale. Visto che i risultati di questi ricatti affettivi possono anche essere buoni a corto termine, producendo eserciti di bimbi che, per sentirsi amati, si sforzano di essere i migliori. Ma sono sempre terribili a lungo termine quando, a forza di aver interiorizzato i «se» e i «ma» dell’amore condizionato, si finisce per convincersi di non avere alcun valore e di non meritare niente. Neppure il diritto di vivere.