Assessori eletti con i voti della ‘ndrangheta, consiglieri regionali condannati per aver concesso appalti alla Camorra, senatori che avevano come autisti gli esattori di Cosa nostra. Sono gli esponenti del Pd che non erano a Roma a manifestare contro Mafia capitale: non potevano esserci per il semplice fatto che sono finiti coinvolti in inchieste contro Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra.

Mentre Matteo Orfini raduna gli attivisti della base dem in piazza don Bosco al grido di Antimafia capitale, c’è infatti un altro Pd lambito, o peggio, dalle inchieste giudiziarie sulle associazioni criminali. E non si tratta soltanto di Mirko Coratti e Daniele Ozzimo, rispettivamente ex presidente del consiglio comunale ed ex assessore dell’Urbe, entrambi tra i 59 futuri imputati del Maxi processo a Mafia capitale. L’organizzazione criminale di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati si è sviluppata negli anni come un vero e proprio virus capace di infettare ogni ambito politico e amministrativo della Capitale. “Il paradigma mafioso, che vedeva d’ accordo imprenditori, politici corrotti e criminalità organizzata era già affiorato a metà degli anni ’90, nelle inchieste sulla ricostruzione post-terremoto a Napoli, ma non riuscimmo ad ottenere le condanne per associazione mafiosa, perchè non disponevamo degli attuali strumenti investigativi”, aveva commentato il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, nel day after dell’operazione che aveva aperto le porte del carcere per Carminati, Buzzi e soci. Come dire che il caso di Roma è soltanto la punta dell’iceberg.

Il boss mafioso chiede di appalti? “Fatti i cazzi tuoi”
L’altro Pd, quello che a manifestare contro Mafia capitale non ci pensa nemmeno, è un reticolo di ras elettorali, cacicchi titolari di migliaia di preferenze, uomini che nei territori hanno garantito la vittoria alle primarie ed ai congressi, grazie anche a rapporti in chiaroscuro con boss e pezzi da Novanta. Gli esempi nella storia del principale partito di centro sinistra si sprecano, anche se spesso non hanno portato a condanne e in certi casi neanche a processi. C’è una scena ormai celebre registrata dalle cimici della Dia il 19 dicembre del 2001: quel giorno Mirello Crisafulli (nell foto), allora deputato regionale siciliano dei Ds, incontra Raffaele Bevilacqua, l’uomo indicato come boss mafioso di Enna. I due si conoscono da anni, si salutano e si siedono a parlare: discutono di politica, affari, appalti. Ad un certo punto Bevilacqua fa una domanda su una determinata gara d’appalto, e Crisafulli replica secco: “fatti i cazzi tuoi“. Affermazione che rivolta ad un boss mafioso è costata cara in diversi altri casi: non a Crisafulli, però, che viene subito iscritto nel registro degli indagati, per poi essere archiviato. Non è stato neanche iscritto nel registro degli indagati, invece, Antonino Papania, ex senatore originario di Alcamo, in provincia di Trapani. Papania ha lo stesso curriculum politico del premier Renzi: esordio con i Popolari di Martinazzoli, passaggio alla Margherita e quindi al Pd che lo porta in Senato fino al 2013, salvo poi cancellarlo dalle liste dopo l’appello di Franca Rame nel 2013 (insieme proprio a Crisafulli).  A Papania viene contestato dal comitato dei garanti un patteggiamento per abuso d’ufficio: nessun cenno, invece, al fatto che per anni l’autista factotum del senatore fosse tale Filippo Di Maria, poi condannato a 10 anni e 5 mesi per associazione mafiosa ed estorsione aggravata. In pratica Di Maria alternava i servigi resi a Papania con la sua attività di estortore di Cosa nostra: l’esponente del Pd spiegò di non essersi accorto di nulla, e la procura accreditò tale giustificazione.

Il nuovo Pd di Renzi? Pieno di cuffariani 
La questione morale esplode per l’ennesima volta tra i dem nell’ottobre del 2013, quando il regista Pif viene invitato alla Leopolda renziana. “Voi siete il partito di Pio La Torre: cacciate Crisafulli a calci nel sedere“, era stato il j’accuse dell’ex Iena. Un monito accolto con favore dalla corte del premier: i Matteo boys, infatti, non hanno mai provato particolare simpatia per l’ex senatore impresentabile, reo di non essersi mai convertito al verbo renziano. L’ostracismo nei confronti di Crisafulli sembrava in principio quasi un tentativo per avvicinare il Pd al partito che in Sicilia aveva il volto di Pio La Torre. Ipotesi scartata non appena è cominciata la campagna acquisti del sottosegretario Davide Faraone. Pur di allargare la base elettorale del Pd, infatti, il luogotenente di Renzi ha imbarcato di tutto. Tra i renziani dell’ultima ora c’è anche  Paolo Ruggirello, per anni luogotenente trapanese del Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo (condannato a sei anni e otto mesi per concorso esterno), che aveva esordito in politica da assistente di Bartolo Pellegrino, deputato socialista, vicepresidente di Totò Cuffaro, arrestato e poi assolto per concorso esterno a Cosa Nostra, celebre per aver definito “infame” un personaggio che aveva parlato con i carabinieri (a loro volta etichettati come “sbirri”). Altro politico di lungo corso fulminato sulla via del renzismo è Raffaele Nicotra, detto Pippo, già indagato (e archiviato) per voto di scambio. Nel 1993 Nicotra era sindaco di Aci Catena e si oppose al divieto dei funerali pubblici per un parente del boss mafioso della zona. Sfidò il questore, e contrariamente alle sue direttive si recò platealmente al cimitero per abbracciare la famiglia del defunto. Pochi giorni dopo il prefetto di Catania decise di rimuoverlo da sindaco, mentre il consiglio comunale venne sciolto per mafia. Lui non si diede per vinto, tornò a candidarsi e riuscì a guadagnare un posto addirittura in commissione regionale antimafia.

Calabria, la roccaforte del Pd? È infiltrata dalla ‘ndrangheta
Il Pd, però, non ha pescato solo a destra negli ultimi anni. È il dicembre 2012, nel rifugio del latitante Giovanni Tegano, boss di Archi e protagonista della seconda guerra di mafia, gli investigatori della mobile trovano centinaia di volantini che invitavano a votare per Nino De Gaetano, candidato al consiglio regionale con Rifondazione comunista. Genero di Giuseppe Suraci (medico defunto dei Tegano), il politico (che nel frattempo è passato col Pd)  non è stato candidato alle regionali ma il governatore della Calabria lo ha nominato assessore ai Trasporti: poi a a giugno la guardia di finanza lo ha arrestato nell’ambito dell’inchiesta Rimborsopoli. Ma non è l’unico caso in cui un dem finisce nelle inchieste anti ‘Ndrangheta: nel 2013 finiscono agli arresti l ‘ex sindaco antimafia di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, e il sindaco di Melito Porto Salvo Gesualdo Costantino. La prima è oggi sotto processo con l’accusa di essere stata eletta grazie a voti sporchi, in cambio dei quali avrebbe garantito favori della ‘ndrina Arena. Il secondo, invece, è stato arrestato nel 2013 con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. “L’abbiamo messo noi lì”, dice intercettato un esponente della cosca Iamonte di Melito Porto Salvo, storica roccaforte del Pd, che il giudice per le indagini preliminari descrive così: “la storia della città è puntellata da alcune vicissitudini riconducibili alla forte permeabilità mafiosa dell’ente pubblico comunale”.

Campania, l’uomo di Bassolino condannato per concorso esterno
Era uno dei grandi elettori di Antonio Bassolino, uno di quelli che nel casertano assicurava voti a migliaia. Poi nel 2010 è finito agli arresti: per l’accusa Enrico Fabozzi, l’ex sindaco di Villa Literno (Caserta) ed ex consigliere regionale campano, aveva concesso appalti a ditte legate al clan dei Casalesi. Accusa che ha retto in primo grado, dato che a marzo l’ex democratico è stato condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Lo stesso reato per il quale risulta indagato Lorenzo Diana, ex assessore dei Ds, passato ai dem, quindi finito in Italia dei Valori: è accusato di aver mosso le sue amicizie per ottenere un attestato fasullo utile alla carriera del figlio, in un filone parallelo dell’inchiesta della Dda di Napoli sui rapporti della coop Cpl Concordia e clan dei Casalesi.

E giù al Nord? Amicizie pericolose fra Torino e Milano
Il bubbone dei rapporti mafia-politica è salito anche al Nord (guarda la mappa interattiva), seguendo la celebre “linea della palma” evocata da Leonardo Sciascia. A Torino ha fatto discutere il sostegno elettorale per Piero Fassino sindaco, per le primarie del 2011, chiesto dal parlamentare democratico Domenico “Mimmo” Lucà al costruttore Salvatore Demasi, poi arrestato (e condannato in primo grado a 14 anni per associazione mafiosa) nell’operazione Minotauro e ritenuto dai magistrati il capo della “locale” di Rivoli. Il costruttore e il parlamentare erano uniti dalla comune origine di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria). Lucà si è difeso affermando di non aver mai saputo “dell’affiliazione a un clan” del suo interlocutore. Per il parlamentare, comunque, nessuna conseguenza penale. Le ormai numerose inchieste sulla ‘ndrangheta in Piemonte hanno svelato un’insospettata densità di rapporti tra amministratori e mafiosi, da destra a sinistra, compresi politici locali del partito di Renzi.

Anche in Lombardia le inchieste hanno coinvolto politici di tutti i colori, e nella rete dell’antimafia sono rimasti impigliati soprattutto amministratori locali. Come Calogero Addisi, consigliere comunale a Rho, la città di Expo, arrestato l’anno scorso con l’accusa di essersi messo al servizio del boss Pantaleone Mancuso. In altri casi, come a Lecco, le carte dei pm hanno svelato stretti contatti fra politici democratici e amministratori che rispondevano ai boss prima che agli elettori.

(ha collaborato Lucio Musolino)

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