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In Israele la pena di morte ha sempre più sostenitori

Il processo al militare israeliano Elor Azaria ha riaperto il dibattito sull'introduzione della pena di morte come deterrente al terrorismo. L'impressione è che in Israele il rispetto dei diritti umani sia considerato come un segno di debolezza.

Quando dopo il fallito golpe del 15 luglio si è paventata la possibilità concreta che in Turchia torni la pena di morte, un coro di voci si è alzato da più parti per sottolineare l’incompatibilità tra pena capitale e valori europei. Ma Erdogan non è il solo, da quelle parti, a credere che la forca sia un buon deterrente, stavolta nel silenzio della comunità internazionale. 

Il dibattito sulla pena di morte va avanti da un anno anche in Israele. Alle elezioni del 2015 ci ha provato l’attuale ministro della Difesa Avigdor Lieberman a proporne la reintroduzione tra i punti del suo programma, ma le elezioni non gli andarono bene e la cosa è finita lì. Ora, dopo l’ultima ondata di attacchi, se ne ricomincia a parlare. Israele prevede già la pena di morte in tempo di guerra e per particolari tipi di reato. In tutta la storia del Paese però la pena capitale è stata eseguita una sola volta, nel 1962, quando fu giustiziato il criminale nazista Adolph Eichmann. Oggi la proposta di Beitenu Israel (il partito di Lieberman) e di buona parte della destra israeliana è di estendere la pena di morte ai terroristi processati dalle corti marziali (ossia ai palestinesi).
 
È interessante ripercorrere la genesi che ha portato alla riapertura del dibattito. Tutto è iniziato lo scorso 24 marzo, quando il sergente del corpo medico dell’esercito israeliano Elor Azaria sparò per uccidere un palestinese, Abdul Fatah al-Sharif, rimasto ferito dopo aver cercato di accoltellare un militare in un quartiere della città di Hebron, in Cisgiordania. Azaria era rimasto ferito anche lui nell’attacco, ma un video poi circolato in tutto il mondo mostra che egli sparò un colpo alla testa dell’attentatore a una distanza di due metri e nonostante quest’ultimo fosse steso a terra, immobilizzato dalla ferita e sorvegliato da una decina di altri soldati.

 
Il caso è andato a processo solo perché un testimone, palestinese, è riuscito a filmare un video in cui si vede che Abdul era ancora vivo e immobile a terra quando Azaria gli ha sparato. Le indagini hanno dimostrato in maniera piuttosto chiara che il militare ha aperto il fuoco mentre l’attentatore era inoffensivo e per questo oggi rischia una condanna per omicidio. In un primo momento l’episodio è stato duramente criticato sia dal governo che dall’esercito israeliano.
 
Tuttavia, invece di aprire un dibattito su come le forze di sicurezza ricorrano con troppa facilità alla violenza, il caso è stato rapidamente strumentalizzato dalla destra nazionalista che ha fatto di Azaria un eroe, una sorta di marò israeliano esaltato come un martire della patria malgrado il suo unico merito sia stato sparare a un soggetto inerme. Così numerosi esponenti, movimenti e partiti radicali hanno organizzato manifestazioni in suo sostegno per chiederne l’assoluzione.
 
I coltelli sono l’arma più comune utilizzata dai palestinesi che attaccano i soldati israeliani. Secondo il Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center, dal settembre 2015 alla fine del luglio 2016, ci sono stati 157 attacchi con coltello in Israele e Cisgiordania. Nello stesso periodo ci sono state 101 sparatorie. In tutto 40 persone sono state uccise negli attacchi e altre 527 sono rimaste ferite. Israele ha risposto alla violenza con altra violenza: più di 200 palestinesi sono stati uccisi nel corso di questi attacchi nell’ultimo anno, nella maggior parte dei casi - sostiene l’editorialista israeliano Gideon Levy su Haaretz - non era necessario sparare e sicuramente non era necessario uccidere. Israele, denuncia Levy, effettua esecuzioni sommarie ogni giorno. Ma secondo una parte dell’opinione pubblica le misure adottate finora non sono abbastanza dure. Così il processo ad Azaria è arrivato proprio mentre nel Paese si ritorna a parlare della pena di morte come unico deterrente efficace contro il terrorismo.
 
In molti però ritengono che il ritorno del boia non sia una vera soluzione e che al contrario finirà soltanto per alimentare l’emergenza sicurezza. Lo pensa tra gli altri Nathan Hersh, attivista ed ex militare israeliano, che in un editoriale sul New York Times racconta come il processo ad Azaria abbia contribuito a diffondere una chiave di lettura che vede il rispetto dei diritti umani come un segno di debolezza e quindi un potenziale rischio per la sicurezza del Paese.
 
Una visione che trova riscontro, tra le altre cose, nel testo di legge approvato dalla Knesset (il parlamento israeliano) la sera dell’11 luglio, che prevede maggiori controlli sulle organizzazioni non governative che ricevono più del 50 per cento dei loro finanziamenti da governi stranieri, mentre ciò non vale per le Ong favorevoli al governo, largamente finanziate da fondazioni estere e privati israeliani. Una legge, dunque, che prende di mira soprattutto le organizzazioni che difendono i diritti dei palestinesi.
 
Il nodo della vicenda è che negli ultimi decenni i diritti umani si sono imposti come ultima speranza rimasta di emancipazione collettiva, il cui progresso si sta ora scontrando con la necessità urgente di contrastare il fenomeno del terrorismo da qualunque parte provenga. Nel difficile tentativo di garantire un livello di sicurezza adeguato alla minaccia, da più parti (ad esempio negli Stati Uniti col Patrioct Act e poi anche qua e là tra gli Stati europei) si è iniziato a mettere in forse i preesistenti spazi di libertà e adesso anche il paradigma dei diritti.
 
Con gli attentati che hanno ormai preso il posto della crisi in cima alla classifica delle paure in Occidente, l’idea che i diritti umani siano solo un ingombrante fardello guadagna sempre più consensi. In questo quadro Israele rappresenta un caso limite, in cui sono le forze repressive a sentirsi minacciate dagli strumenti di tutela della persona umana, quando in una democrazia degna di questo nome dovrebbe essere esattamente il contrario.
 
La sentenza del processo ad Azaria dovrebbe arrivare il prossimo 28 agosto.

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