Il silenzio della danza. Intervista a Laurent Chétouane

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C’è una domanda che ha tormentato la danza del Novecento alla base di Je(u), una pièce per un ballerino solo, interpretata da Mikael Marklund, che è anche coautore della coreografia insieme al regista Laurent Chétouane, proposto a Roma al Palladium il 5 aprile e poi all’Auditorium del Goethe-Institut il 7 aprile. La domanda è se sia possibile, nella danza, «avere simultanea esperienza del corpo e del movimento, in modo tale che il movimento non “opprima“ più il corpo, lo nasconda, o addirittura lo neghi in favore dello stimolo visuale bidimensionale, bensì al contrario gli restituisca la sua tridimensionalità, il suo peso, la sua materialità, perfino nella sua animalità». Insomma se sia possibile, per il corpo, «divenire corpo. Ancora». Una lunghissima storia ha questo desiderio, questo programma di liberazione e riconquista del corpo, della sua concretezza, rispetto a un ordine che lo nega e lo nasconde alla forza di gravità. Laurent Chétouane, uno degli esponenti più originali del teatro-danza contemporaneo, nasce a Soyaux, in Francia, proprio nell’anno in cui Pina Bausch fonda il suo Tanztheater a Wuppertal, nel 1973. La sua passione per il teatro scoppia dopo una laurea in ingegneria. Si forma come regista in Francia ma soprattutto in Germania, dove riscuote presto successo mettendo in scena autori come Seneca, Genet, Büchner, Heiner Müller e Sarah Kane, ma anche Schiller e Goethe. Poi nel 2006 si volge alla danza e si impone all’attenzione internazionale con una serie di coreografie il cui stile ha fatto molto discutere. Ha avuto bisogno di passare dal linguaggio – mi spiega – per poi giungere al corpo, «al corpo come resto, al di là del linguaggio. C’è un corpo che si sente parlare. È questo il corpo che balla nei miei spettacoli».

 

D: Cosa accomuna il tuo lavoro di coreografo al tuo lavoro di regista? C’è un elemento di continuità che li lega?

 

R: La percezione del silenzio come luogo dello spettacolo. Un attore deve percepire il silenzio, prima di parlare. Come scrive Heiner Müller nel suo Filottete: «Ascolta come il silenzio interrompe il tuo discorso». C’è un silenzio che precede sempre il parlare. Uno spazio, un mondo che ci preesiste. Si tratta di percepirlo. E quindi di non stare sempre al centro, ma di essere parte dell’ambiente: «Una parte della parte che in principio era il tutto», come dice Mefisto nel Faust di Goethe.

 

D: Restituire al corpo il suo peso è un obiettivo che ti prefiggi con Je(u). Ma la vostra è una pièce molto strutturata e si ha talvolta l’impressione che il corpo, con tutta la sua pesantezza, sparisca dietro la forma, dietro la formalizzazione.

 

R: Direi che nel nostro lavoro non è il rapporto con il peso o con la forma ad avere la priorità, quanto piuttosto la questione di come un corpo entra e resta in un movimento e quali conseguenze quel movimento ha su di esso. Il corpo è qualcosa che si produce nell’interazione e nella tensione tra movimento e peso. È importante capire che questo lavoro gioca con la forma come qualcosa che può verificarsi, ma che non è rigida o fissa. Forse si può dire così: ne va di una fluidificazione della forma, della sua sparizione dopo il suo apparire. In tal modo si apre improvvisamente una libertà, un’instabilità, un rifiuto di una identità stabile e riconoscibile. Sta qui l’elemento politico di questo tipo di danza.

 

©Matija Lukic

 

D: Ciò che trovo particolare in questo spettacolo è il modo in cui il ballerino dà continuamente l’impressione di voler fare un passo, una figura, e poi rinuncia. Si ferma all’accenno, all’allusione. Qualche volta lascia cadere le spalle, come a dire: no, ci ho ripensato, non lo faccio. E poi c’è quel modo tutto particolare di mettersi a camminare sulla scena.

 

R: Mikael cammina in modo particolare perché lo fa con piena consapevolezza di muoversi avanzando con i piedi per terra. Quando camminiano noi non ci pensiamo. Lui lo fa e il suo camminare cambia. Poi certe volte lui in realtà non cammina, ma cade, cade orizzontamente. E il corpo che lo trascina, che si muove, non lui stesso. Non si tratta propriamente di danza. Ma di un corpo che si muove. Non è la stessa cosa. Come scrive Kleist nel Teatro di marionette: le membra della marionette entrano in un movimento ritmico che appare come una danza. Ma non lo è! E per questo si può riflettere sulla danza, considerarla in modo nuovo. Mikael lascia cadere le sue membra. Non balla. Ma ricorda a qualcosa come una danza.

 

©Matija Lukic

 

D: Parli di cadere orizzontalmente. In un certo senso quest’andatura su cui hai lavorato insieme a Mikael è mossa dal desiderio di cambiare la direzione e l’asse della danza, cioè di passare dalla verticalità, caratteristica del balletto classico, all’orizzontalità. La verticalità del balletto è legata al desiderio di superare o nascondere la forza di gravità. Optare per l’orizzontalità significa allora voler riconoscere la forza di gravità e quindi restituire al corpo il suo peso, ma anche la sua tridimensionalità, in modo che il ballerino smetta di essere solo una parte di un’immagine (in movimento) che gli spettatori contemplano. Sarebbe stato interessante, in questa pièce che lavora sulla trasformazione del rapporto tra corpo e forza di gravità, vedere all’opera più ballerini. Perché hai scelto la forma dell’assolo? Volevi mettere tra parentesi la questione della coesistenza, dell’organizzazione della convivenza sulla scena che rimanda poi sempre a quella nella vita?

 

R: In Je(u) mi interessava analizzare come un singolo corpo scopre o elabora per sé il rapporto con la superficie o con il pubblico, prima ancora di entrare in uno spazio di contatto con altri corpi. In altri lavori l’interesse era diverso. In Khaos, per esempio, sulla scena c’erano quattro ballerini e tre musicisti che suonavano brani di Bach,Rihm e Cage. È stato interessante vedere come la forza di gravità improvvisamente diveniva orizzontale e i ballerini si influenzavano a vicenda quasi come pianeti: un ballerino cade e finisce nella traiettoria dell’altro, che deve reagire alla sua presenza. Perciò la pièce si intitola Khaos, perché l’insieme dei movimenti non si poteva più controllare, non si poteva più organizzare. Quando i corpi attraversano lo spazio con una tale spontaneità non si può più controllare niente. Eppure è estremamente interessante tentare di organizzare il loro gioco. In fisica si parla di «sistemi dinamici», che finiscono semplicemente fuori controllo. La pièce aveva la funzione di un learning play, di un Lehrstück in senso brechtiano, sia per gli spettatori che per i ballerini. Si poteva vedere, sentire, percepire come passo dopo passo i ballerini aprivano il proprio corpo a un nuovo rapporto con il suolo su cui si muovevano, come a poco a poco lasciavano l’asse verticale per imparare a stare in piedi in modo nuovo. Allora potevano nuovamente riprendere il loro gioco con la verticalitità. Ma senza più essere dipendenti da essa.

 

D: In questa prospettiva la coreografia diventa un tentativo di organizzare l’inorganizzabile, di organizzare qualcosa che sfugge continuamente al controllo. Un paradosso, in fondo, un paradosso sublime, che però rispetto alle poetiche del sublime sembra aver un’intenzione contraria: sembra rivolgerci l’invito a lasciar andare ogni desiderio di controllo. Il lavoro dello spettatore sarebbe quindi come una sorta di esercizio di abbandono, di «Gelassenheit», si direbbe in tedesco. E questo ovviamente coinciderebbe con una rileborazione radicale del proprio rapporto con l’altro.

 

R: Si tratta di percepire veramente l’altro al di fuori di noi, di non eliminare quel che non ci piace, di farsi realmente influenzare dal quel che esiste intorno a noi, di accettare che esiste e che per così dire ci ‘coreografa’. Praticare veramente l’abbandono, la «Gelassenheit» come dici tu, è molto difficile. Non significa altro che lasciarsi alla spalle la propria volontà. Il che non vuol dire non poter dire di no, ma non farlo prima di aver incontrato realmente l’altro. Oggi è più che mai importante: il mondo va in una direzione che non possiamo più controllare e dobbiamo imparare a navigare in modo da sfruttare le onde senza farci travolgere da esse. E le onde nessuno le può controllare.

Quando si lavora in questo modo, la cosa interessante è che il ballerino non può più decidere se accettare o meno l’impulso che viene da fuori. Non ha scelta. Non può rifiutarsi: se l’impulso arriva, lo deve accettare; lo può trasformare, piegare, rivoltare, ma prima di tutto lo deve accogliere. La cosa interessante è che allora nasce un’incredibile fiducia reciproca tra i ballerini e ognuno di loro si apre allo spazio per così dire in tutte le direzioni. La domanda che poi si pone automaticamente è come farli rimanere in quest’apertura.

In questo contesto c’è per me un altro punto importante, politicamente importante. Credo che sia fondamentale che oggi, nella situazione politica ed ecologica in cui ci troviamo, che l’uomo metta in discussione il suo rapporto con l’animale, ma anche con gli oggetti, non solo quello con gli esseri umani. Dobbiamo imparare a percepire noi stessi anche come oggetti. Questo non significa che si deve buttar via la propria soggettività, la propria individualità, ma che si deve sentire il nostro corpo anche come un oggetto che sta in relazione con altri oggetti. Non solo con altri esseri umani, ma anche con animali, pietre, montagne, fiumi… Dobbiamo chiederci cosa significhi pensare ecologicamente, scrivere ecologicamente, parlare ecologicamente.

 

D: Puoi dire qualcosa sul tuo metodo di lavoro con i ballerini e con gli attori? Quali sono le differenze? Quale ruolo gioca l’improvvisazione? Quale la concezione che hai sviluppato prima?

 

R: In entrambi i casi mi interessa prima di tutto che venga raggiunto un particolare stato di apertura del corpo e dell’animo, un modo di sentire e percepire intensificato. Quando questo avviene, allora il materiale per lo spettacolo si produce automaticamente. È come se il ballerino o l’attore entrasse in una relazione più profonda con se stesso. Così possono sorgere in lui idee diverse da quelle che ha solitamente. Queste idee sono sottoposte a un processo di selezione, di montaggio, di collage. Alla fine la pièce è come un unico bel flusso. Ma in realtà è tutto un montaggio, come nel cinema. Molti cuts, ma la sensazione di una logica.

 

D: Una tale modalità di creazione pone inevitabilmente la questione dell’autorialità. Chi è l’autore di quello che si vede? Il coreografo, il ballerino, il pubblico, lo spazio circostante?

 

R: In una società in cui nessuno più decide da solo non c’è più autorialità. Noi siamo tutti parte di un progetto più grande che non possiamo vedere. Forse lo vede Dio. O madre contingenza. In uno dei miei ultimi spettacoli, uno spettatore mi ha detto: «questo tipo di arte non appartiene più a nessuno. Non al coreografo, non ai ballerini, non al pubblico. A nessuno». E questo lo trovo magnifico come questione filosofica: che quest’arte non appartenga a nessuno, che diventi un bene comune. Non ha uno scopo, non si colloca in una corrente nella storia della danza. Un’altra spettatrice, una studiosa di danza, mi disse una cosa che trovai molto bella: chi o che cosa coreografa lo spettacolo? E che cosa fa questa coreografia? Si vede che c’è una coreografia, una logica, una composizione, ma non si sa chi o che cosa produce e governa il movimento che vediamo.

 

D: Si potrebbe dire che questo ‘chi’ o ‘che cosa’ che fa la coreografia prende forma nel processo della messinscena? E questo al di là dell’ideologia della presenza che sta alla base della performance art e che tende a negare il peso e le possibilità della memoria, ma anche il desiderio che pulsa nell’aspettativa, nella speranza. La presenza è fatta in gran parte da elementi del passato e del futuro, quindi è in buona parte costituita del non-più e del non-ancora. Il tempo della presenza non è il qui e ora.

 

R: Uno spettacolo è senz’altro un processo di apprendimento per il ballerino come per lo spettatore. Nel senso di uno sviluppo in tempo reale. Si va da scene in scena, si stabilisce una relazione con quella parte, poi con quell’altra parte, e così man mano si costruiscono connessioni… In questo senso c’è un apprendere.

Interessante è la questione, che allora si pone, sul tempo della danza. In un certo senso è come se la coreografia si approssimasse alla musica. Nella musica si può essere assolutamente nel presente, nella danza in realtà solo raramente. Un coreagrafo come Forsythe riesce invece a farlo affidando al ballerino compiti ultracomplicati, così che nel momento di compierli questi è talmente sotto tensione da essere pienamente presente a se stesso, pienamente nel qui e ora. I ballerini si sentono sempre al limite, sul punto di non farcela, di non riuscire a fare quel che il coreografo vuole da loro e perciò sono in ogni momento presenti a se stessi. Cunningham, invece, ottiene questa presenza attraverso i particolari passaggi da un movimento all’altro che richiede ai ballerini, i quali è come se fossero sempre sul punto di cadere o sono costretti a eseguire movimenti goffi per riuscire a fare quel che il coreografo chiede loro. E Cunningham trova magnifico che appaino goffi.

In Je(u) il tema della presenza è cruciale. Ma qui è ottenuta non attraverso un sovraccarico, una complicatezza del movimento o un difficile passaggio a un altro movimento, bensì mediante un’esperienza dell’attimo che passa attraverso il suolo su cui ci si muove, attraverso un senso dell’ampiezza, ma inteso più nel senso di un ascoltare. Allora la danza acquista una dimensione musicale. Per me Je(u) è da considerare quasi come un brano musicale, invece che come danza in un senso solo visuale. Trovo così bello guardare corpi che sono liberati dalla visualità, nel senso delle immagini prodotte nella danza.

 

D: Il ballerino che smette di produrre immagini che lo spettatore può ammirare da lontano, il ballerino che si muove al di fuori dell’immagine sarebbe allora il corpo che diventa percepibile nella sua pesantezza e nella sua materialità. Come una melodia che si muove nello spazio, come musica o nella dimensione della musica e non più dell’immagine.

 

R: Sì, esatto. Nella musica si è sempre perduti. Non si ha una visione di insieme. Si è sempre dentro, in mezzo. Nel bosco o nel mezzo del mare, senza coste all’orizzonte. Questo è il bello della musica. Questo essere esposti senza protezione. In fondo si può dire che in questa pièce non ci sia nulla da vedere. Ma che il vedere serva ad aprire qualcos’altro. Lo penso qualche volta durante le prove, quando siedo in platea davanti ai ballerini: è così bello non vedere nulla, ma si provano molte cose. Quindi si ha bisogno dei propri occhi, perché solo vedendo si può vedere che non c’è più nulla da vedere. Quel che importa non sono le immagini che la danza produce. Non è il prodotto che ci viene venduto. Qui non c’è nulla da comprare. Solo da condividere. Da provare.

 

D: Vorrei tornare alla quesitone politica della forma. Nelle Lettere sull’educazione estetica di Schiller ha indicato la danza come modello della società estetica, della educazione estetica riuscita, in cui si conciliano libertà e costrizione. Il problema è che – come diceva Paul de Man – essa nasconde la violenza che la rende possibile. La mia domanda riguarda il ruolo delle regole nel tuo lavoro. Si parla di libertà, di liberazione del corpo, ma c’è per alcuni versi una forte regolamentazione, per esempio un silenzio assoluto da osservare. Come si concilia questa regolamentezione con la libertà che si vuole produrre o che si dovrebbe manifestare?

 

R: Io trovo che la libertà non stia in contraddizione con la forma o la struttura. Il contrario della libertà per me è l’improvvisazione. Improvvisando il ballerino o l’attore ripete soltanto quello che già conosce o sa fare. Libertà non significa fare quel che si vuole. Libertà è quando improvvisamente io non so più se sono io che prendo una certa decisione, quando non so più chi prende quelle decisioni che io prendo. Libertà è il momento della decisione senza ragione, senza spiegazione; è un atto di responsabilità, un rischio. Pieno, reale. Credo che si debba pensare la libertà in relazione alla contingenza e non alla liberazione dalla forma. Come ho detto, questa pièce è pensato come un Lehrstück. Per apprendere si deve passare attraverso determinati processi; anche per parlare della libertà si deve imparare che cosa può essere, la libertà.

 

D: Si tratta dunque anche di stimolare lo spettatore a emanciparsi dalle forme consuete della ricezione, di assumersi lui la responsabilità e il piacere di decisioni immotivate che però possono produrre dentro di lui cose – processi conoscitivi, esperienze – che altrimenti non avrebbero avuto luogo. È il tema della giusta ricezione, che il teatro contemporaneo pone con insistenza, più o meno intenzionalmente. Introducendo lo spettacolo, tu hai invitato gli spettatori a non pensare, ad abbandonarsi all’emozione del vedere, senza riflettere. Come se si contemplasse un paesaggio. Ma questo spettacolo è ben meditato. Si potrebbe vedere in questo una contraddizione?

 

R: Non si può non pensare. Il pensare avviene inevitabilmente. Ma è molto diverso se io fin dall’inizio cerco di capire, prima ancora di sentire qualcosa che poi potrei veramente comprendere o, invece, se percepisco qualcosa e questa percezione produce in me un ‘pensare’: allora in fondo non sono io a pensare, ma per così dire è il pensiero che pensa in me. E siamo nuovamente al tema del rapporto con un fuori. Questo pensare in me è un fuori, quando improvvisamente si produce. Da dove viene? Si è liberi di ascoltare, di entrare in dialogo con esso.

 

D: Si potrebbe osservare che questo tipo di danza è troppo astratto e formalizzato, che non lascia nessuno spazio a una narrazione, a una storia con cui ci si possa in qualche modo identificare. Ma c’è un bisogno di racconto che è antropologico.

 

R: Astrazione e forma non significano assenza di storia. Qui credo si possa dire che si racconta una storia, ma non una che ha avuto luogo altrove, in un altro tempo. Si tratta della storia di quel corpo che vediamo e di quello che sta facendo, quel corpo con la sua goffaggine, il suo imbarazzo. È la storia del corpo che non riusciamo mai a controllare, che continuiamo a imparare a governare, ma che ci sfugge sempre. Una storia in cui ci si può senz’altro identificare.

 

D: Hai parlato di Je(u) come di un brano musicale. Per certi versi ricorda una composizione notissima e molto particolare come 4’ 33’’ di John Cage. In Je(u) non c’è musica, non ci sono parole, non ci sono suoni né rumori, tranne quelli che fanno il ballerino, gli spettatori e lo spazio in cui si trovano. Proprio come nel pezzo di Cage. Ovviamente in entrambi i casi si tratta di opere che mostrano che il silenzio è un’astrazione, appunto perché poi si avvertono un sacco di cose. La sensazione di silenzio viene dal fatto che non si sente quel che ci si aspetta di sentire: la musica. Il suo posto vuoto si riempie man mano dei rumori dei corpi e dell’ambiente. Corpo e spazio vengono in primo piano. Ascoltiamo i nostri corpi, l’ambiente in cui siamo calati. Il silenzio diventa una sorta di specchio acustico. È un’emozione fortissima.

 

R: Sì, questo silenzio è l’emozione che il pubblico ogni volta è chiamato a affrontare. Un corpo arriva sulla scena e non propone nulla di immediatamente e chiaramente percepibile. Offre una certa presenza, una certa misura di tempo, una certa intensità, ma non movimenti da osservare. Questa credo che sia la prima cosa che può risultare quasi inquietante, che mette alla prova il ruolo dello spettatore. Ci possono essere casi in cui il pubblico è completamente ostile, spettacoli in cui i ballerini rinunciano a ballare perché sentono troppo la sua avversione. Resto sempre sorpreso della velocità con cui gli spettatori possono andare via. Lo spettacolo dura mezzora e qualche volta dopo cinque minuti qualcuno si alza e va via. Sarei veramente curioso di sapere quali processi interiori portano una persona a trovare noioso uno spettacolo dopo soli cinque minuti. C’è un emozione che si trasmette ma non è diretta. Alcuni spettacoli possono essere molto tragici, molto tristi, altri molto leggeri e incredibilmente divertenti. Potrei raccontare storie di spettatori saliti sul palcoscenico urlando, ma anche di un pubblico completamente aperto che trasforma lo spettacolo in un evento di grande intensità. Più di uno spettatore mi ha confessato di non aver mai sentito così fortemente il ruolo del pubblico, la presenza del proprio corpo e dei corpi degli altri intorno a sé, l’influenza del suo comportamento sugli altri. Il ballerino sulla scena è una presenza che – come mi ha detto più di uno spettatore – obbliga a guardare se stessi, a sentire se stessi. È uno specchio, che ci rimanda indietro qualcosa di noi da guardare.