Roberto Latini, Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi)

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Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi), produzione Fortebraccio Teatro, in scena al Teatro Era di Pontedera il 4 febbraio 2017, adattamento e regia di Roberto Latini, fa dell’idea di metamorfosi una poetica che investe più fronti: contenuto, forma, spazio, e persino spettacolo. Il primo mutamento di forma riguarda il linguaggio, ossia il passaggio dalla letteratura al teatro. Lo spettacolo è strutturato in quadri intitolati come i brani ovidiani, tuttavia esso non vuole «mettere in scena quei Miti», come indica la nota registica; l’interesse risiede anzi nel cercare possibili «derive» teatrali, e attuali, del testo, concedendosi pure di allontanarsi da esso. Non solo l’ordine degli episodi non segue quello ovidiano, ma in più esso è soggetto a modifiche in ogni spettacolo: mutano sia la scelta che l’articolazione dei quadri, regalando un evento unico e non ripetibile. La drammaturgia, definita «mobile», si rinnova di continuo, nell’ottica di un’incessante ricerca, che è al contempo virtù e fine del teatro di Latini.

© Futura Tittaferrante

Parola e azione scenica sono affidate a una troupe di clown di memoria felliniana, contaminati da echi disneyani. Con volto bianco e naso rosso, muniti di parrucche sgargianti, scarpe oltremisura e orecchie da Minnie (i costumi sono firmati Marion D’Amburgo), essi compaiono sulla scena vuota, da un fondale di teli bianchi. Le vicende ovidiane si sviluppano in un’atmosfera in bilico tra comicità e tragedia: dopo una danza sgangherata evocante lo stato primigenio del Caos, fra risate e scambi di battute in grammelot, si incontra un inquietante Minotauro (Savino Paparella) con le scarpe al posto delle corna; ci si imbatte nei terribili racconti di Coronide, Ecuba, e della Sibilla Cumana; ci si commuove dell’ineluttabile separazione di Orfeo ed Euridice (Roberto Latini e Ilaria Drago), che avviene senza il minimo sguardo fra i due, già consapevoli del loro destino. Ogni quadro è valorizzato dalla combinazione della concezione sonora di Gianluca Misiti e delle luci di Max Mugnai. Cangianti e soffuse, queste rendono i contorni delle figure labili, inafferrabili.

Anche nei clown avviene una metamorfosi: man mano che si spogliano degli accessori, acquistano un’essenzialità sempre maggiore, che li porta a esprimere un sistema di significati e valori a noi vicini, analogamente a quanto accadeva col sistema mitico-eroico nella cultura antica. La terribile ma sincera umanità del clown tocca profondamente lo spettatore, e stabilisce con esso una forte empatia: prima che tutto inizi, a sipario ancora chiuso, Latini scende in platea recitando un prologo che invita e introduce il pubblico allo spettacolo.

Lo spettatore è trascinato da un vero e proprio ‘montaggio delle attrazioni’ alla Ejzenštejn, ossia da una successione di numeri, divisi dal buio, o cuciti assieme senza soluzione di continuità, come accade anche nella scrittura ovidiana. L’effetto complessivo è una sinfonia visiva, che alterna sapientemente brani corali ad assoli. Fra questi, le danze contorsioniste di Aracne e del Sonno di Alcione (eseguite da Alessandra Cristiani) si avvicendano agli episodi Sirene e Ecuba (a cura di Ilaria Drago), in cui anche voce e parola hanno un ruolo cospicuo. Qua e là, recitato ai microfoni decorati con graziosi bouquet di fiori, il testo di Ovidio (nella traduzione a cura di Piero Bernardini Marzolla) accompagna le esibizioni, per non perdere definitivamente il contatto con l’opera.

© Futura Tittaferrante

Mentre si riallacciano rapporti con la tradizione, si stabiliscono altri ponti con l’attualità. Ricorrono oggetti scenici relativi alla cultura del consumismo e del turismo balneare, quali ombrellone, sdraio, secchielli e pallone da spiaggia, nonché un canotto gonfiabile su cui si ammassano gli Argonauti, immagine che – volente o nolente – rimanda a quella di un’imbarcazione di migranti, ormai ben salda nell’immaginario collettivo. O ancora si assiste all’adulterio di Coronide (Ilaria Drago), trasfigurato in umoristico strip-tease clownesco.

© Futura Tittaferrante

E non mancano neppure influssi metateatrali, come nell’episodio Sirene – immerso in una luce blu – la cui protagonista, emblematicamente, è la phonè dell’interprete Ilaria Drago. Si esplora il passaggio dal parlato al canto, da tonalità acute a più gravi, da voci ammalianti ad atroci. La resa delle molteplici declinazioni dello strumento ‘voce’ rispecchia la natura ambigua della Sirena, seducente e mostruosa.

Il linguaggio che riflette su sé stesso non è autoreferenziale, bensì stimola numerosi interrogativi – fra gli altri: in che misura ha senso considerare le forme artistiche e teatrali alla stregua di generi codificati, dai confini nettamente delineati? Danza e teatro sono chiaramente distinguibili, così come canto e parlato; tuttavia, ciò da cui sembra veramente attratta la ricerca creativa è l’indagine di quello spazio di trasformazione delle forme, di quella soglia, che, come scrive Walter Benjamin nei ‘Passages’ di Parigi, è una linea di confine che si gonfia, lievita fino a configurare una zona entro cui si contemplano due stadi di una metamorfosi, senza rigida distinzione fra loro. Il divenire nel tempo, la ricerca – è bene riaffermarlo – sono il fine del teatro. E se è vero che il teatro è forma effimera, mai ripetibile, la metamorfosi è la linfa che lo fa vivere in un eterno, ma ogni volta unico, hic et nunc.