Ripubblichiamo un articolo uscito su La Stampa del 27 maggio 2011, il giorno dopo la cattura di Ratko Mladic. Oggi il Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia dell’Aja lo ha condannato all’ergastolo per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità.

Chissà se il poliziotto del commissariato di Sremljanin che ha riconosciuto la foto tessera di un documento rilasciato di recente riuscirà a godersi la pensione, perché se da un lato in teoria ha diritto ai 10 milioni di euro della taglia su Ratko Mladic è pur vero che vive in un Paese in cui non più di tre settimane fa il 47 per cento della gente aveva detto «considero Mladic un eroe», e alla domanda se l’avrebbe denunciato il 67 per cento aveva risposto: «Mai».

Forse è anche per via di questo clima popolare che Ratko non si era fatto crescere barba o baffi, non celava le proprie fattezze sotto cappelli a falda e lasciava fare al tempo, che con lui è stato particolarmente impietoso. Tutto sommato quell’uomo sfatto e zoppicante che col braccio buono teneva l’altro paralizzato non si nascondeva, limitandosi a lasciarsi morire ai margini di una società rurale.

Che si trovasse da tempo in Vojvodina non è una novità assoluta, l’anno scorso l’aveva scritto perfino un giornale bosniaco raccontando che per vincere la depressione che l’aveva assalito si era messo a lavorare in un allevamento di mucche assieme con l’ex capo della sua sicurezza personale.

Eppure, se le prime indiscrezioni sono vere a fermare la fuga di un uomo che portava il destino nel nome (Ratko significa guerriero) è stato un riflesso dell’antica rigidità militare. Aveva preso il nome di Milorad Komadic e procurarsi una «kartica» falsa in Serbia non è proprio un gran problema, lui invece aveva voluto chiedere il documento d’identità alla polizia, tra le cui file sicuramente ha qualche amico ma dove una copia della foto rimane negli archivi.

Il ministro degli Interni, Ivica Dacic, l’aveva annunciato pochi giorni fa, dopo l’ennesima reprimenda europea: «Affiancheremo il lavoro di ricerca dei servizi di sicurezza con i vecchi metodi di polizia ovvero riscontri, pedinamenti, intercettazioni», e fra i «vecchi metodi di polizia» uno dei principali è la memoria del poliziotto. Ecco dunque un maturo sergente della Vojvodina che scartabellando negli schedari nota quella foto, ecco la segnalazione ai servizi di sicurezza e l’occupazione militare del villaggio durante la notte per un arresto all’alba.

Quando gli agenti sono arrivati e se lo sono portato via, la gente del villaggio prima ha detto di non averlo mai notato e subito dopo ha cominciato a insultare i poliziotti. Per i serbi, caschi il mondo, Mladic non è l’uomo che ha assediato Sarajevo ma colui che impedì ai «mujaheddini» di conquistare la Bosnia, non il generale che rese possibile il genocidio di Srebrenica ma quello che vendicò l’eliminazione di tremila contadini serbi eliminati in tre anni nella medesima area.

A Belgrado oggi il tripudio è tutto del governo e della tv di Stato, la città resta distaccata, pensa a come uscire da una crisi economica devastante. I soli commenti che si possano cogliere riguardano la fine così povera di una latitanza che pure aveva pesato tanto sui destini della nazione.

Quel vecchio in carcere adesso per la Serbia significa Europa, prestiti, sviluppo, futuro, «la chiusura di un capitolo della storia nazionale», come ha detto il presidente Tadic dando la notizia al mondo, ma la gente comune non festeggia. E neppure il trionfo dei servizi di sicurezza potrà essere completo fino a quando Mladic sarà fisicamente in Serbia, la sua figura è così ingombrante che subito si era sparsa la voce di un suo immediato trasferimento all’Aja, invece per almeno una settimana il vecchio Ratko starà qui, in una prigione che le autorità evitano di specificare per impedire che nazionalisti e «hooligans» vadano a protestare lì davanti. Nel frattempo, tanto per stare sul sicuro, il capo della polizia ha vietato qualsiasi manifestazione a Belgrado.

Già, nazionalisti e «hooligans»: gli ultimi serbi che si fossero pubblicamente schierati in favore di Ratko Mladic era gente di questo tipo e le sue gesta ormai erano diventate tema di cori da stadio. Ma per molti anni non era stato così, quando nel 2000 il generale aveva deciso di eclissarsi a dargli una mano erano stati in molti. Escluso Milosevic, che aveva già le sue gatte da pelare, tutta una pletora di preti e generali erano stati pronti ad accoglierlo, ospitarlo, curarlo.

Dieci giorni (non dieci anni) fa il Metropolita del Litorale, Amphilohje, autorevole esponente del Sinodo serbo, ha dichiarato in un dibattito: «Certo che ho ospitato Radovan Karadzic durante la sua latitanza, e se avessi potuto farlo avrei accolto anche Mladic». Moltissimi altri si erano dati da fare senza sbandierarlo: per esempio, i medici e qualche primario del «Vma», l’ospedale militare di Belgrado, il più attrezzato della città».

Nel maggio scorso la moglie del generale, Bosilka, melanconicamente rimasta nella casa di periferia che i servizi speciali continuavano a perquisire, era andata in tribunale per chiedere una dichiarazione di morte presunta. «Mio marito era ammalato già undici anni fa - aveva detto - era iperteso, abbisognava di cure continue. Non avendone più avuta notizia credo che sia morto». Se non proprio morto, il generale c’era andato molto vicino. Il braccio paralizzato è testimonianza di un’ictus che lo ha colto alcuni anni fa e di cui paradossalmente tutti sapevano, perfino i tassisti della capitale. C’è stato chi lo ha curato, sicuramente in un ospedale, e qualcuno deve anche aver seguito la sua riabilitazione, almeno in parte. Il tam-tam nazionale continuava imperterrito a diffondere notizie sulla salute del latitante più importante del mondo eppure in un Paese popolato di servizi segreti nessuno riusciva a individuarlo.

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