Hanno scavato una breccia nel muro del capannone sul retro della fabbrica. Poi hanno sfondato pareti e tagliato grate per entrare e rubare. E alla fine sì, ce l’hanno fatta a portare via tutto ciò che poteva avere un valore. Ma non sono riusciti a scacciare quell’odore di bruciato che ancora si sente e che, né il vento che entra fischiando dalle finestre sfondate a pietrate, né i dieci anni passati, avevano cancellato.

«I tedeschi pagano bene», dicevano gli operai quando sotto i capannoni della Thyssen lavoravano 500 persone. Ma i tedeschi volevano chiudere l’impianto. E non facevano manutenzione. Poi ci fu un’esplosione alla Linea 5, il laminatoio che doveva fermarsi per primo: era la notte tra il 5 e il 6 dicembre di dieci anni fa. Sotto queste campate adesso vuote, dove le sole cose che vedi sono montagne di guaine dei cavi di rame, altri muri sfondati, apparecchiature devastate e scaraventate in giro, sembra ancora di sentire le sirene dei pompieri e delle ambulanze che entrano nel cortile. E sembra di distinguere il pianto di quegli operai moribondi: «Non lasciarmi qui, fammi uscire, fammi uscire». Non c’è nulla di letterario in tutto questo. È pura cronaca scritta nei verbali di quella notte in cui qui dentro morirono sette uomini. Si chiamavano: Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino.

Si parla di tutto questo negli atti, tranne che di quell’odore stagnante ancora sui muri dove c’era la Linea 5. E la fuliggine cristallizzata dal tempo e dal calore dell’esplosione è memoria che neppure i ladri e teppisti hanno avuto coraggio di sfiorare o cancellare a colpi di spray colorati.

Dieci anni dopo nella fabbrica violentata da uomini che non hanno rispetto neanche della morte, non c’è più nulla di quella notte. I laminatoi sono stati smontati e portati via dalla proprietà. Resistono in parte gli uffici che vedi dalla strada, ancora con i faldoni accatastati sugli scaffali, i telefoni, i cestini per la carta. Di là, oltre il muro di mattoni paramano rossi, dove lavoravano a caldo enormi rotoli di lamiere d’acciaio, dove sono morti sette uomini, invece ci sono soltanto polvere e scritte sui muri. Porte sfondate e auto rubate nascoste tra gli alberi del piccolo parco che circondava la fabbrica. E ci sono i carri ponte da 30 mila chili che correvano in alto trasportando carichi che fanno impressione. Ma sono troppo grandi, troppo pesanti, troppo tutto per pensare che qualcuno li possa smontare.

Morirono in sette quella notte che ha insegnato poco in fatto di sicurezza sul lavoro se in questo 2017, ad agosto, le vittime erano già 591. E se ci pensi mettono i brividi quei cartelli rimasti affissi sui muri. Sono poster in bianco e blu, fissati sopra a lastre d’acciaio, con figure stilizzate di operai: «Attento! Metti la cintura», «Attento! Hai le scarpe corazzate?». Attenti lo erano anche i padri di famiglia e i giovani uomini che quella sera lavoravano «in straordinario» al laminatoio. Corsero subito alla macchina quando scoppiò l’incendio. Stesero i rotoli di tubi per l’acqua da usare contro quel fuoco che avanzava. Usarono gli estintori. Ma alcuni erano vuoti. Altri scaduti. E la manutenzione non era stata fatta. L’olio vaporizzato in aria dalla rottura di un tubo s’incendiò. Un’enorme palla di fuoco travolse tutto e tutti. Tranne quei cartelli che neanche gli sciacalli hanno avuto il coraggio di toccare. Oppure, ed è più probabile, sono ancora lì perché non li hanno visti. Li toglieranno, forse, gli operai che da qualche settimana - per ordine della proprietà- ripuliscono i capannoni. Tre mesi di operazioni. Per portare via tutto: sporcizia e rottami. E magari demolire anche i muri anneriti la notte dell’esplosione.

Giù, sottoterra, dove c’erano i motori dei macchinari che lavorano l’acciaio non c’è più nulla: i predoni sono scesi anche lì, ci sono delle tracce. Resti. Come quegli avanzi di cibo, e le bottiglie vuote di prosecco abbandonate accanto alle scale in metallo che s’inerpicano sulla parete al fondo dell’ultimo capannone. Non ci sono dubbi: quelle sono tracce di chi ha banchettato qui dentro durante una pausa del saccheggio selvaggio.

Da quella notte di dicembre 2007 non è più entrato nessuno che assistette a quella tragedia della Thyssen. «Non credo che avrei la forza di farlo neanche oggi. È un ricordo doloroso troppo vivo dentro di me», ti racconta al telefono Antonio Boccuzzi, l’operaio che si salvò per miracolo. Che corse fuori a invocare aiuto. E che oggi da parlamentare dice: «La sicurezza sul lavoro è il primo problema».

Faceva freddo la notte dell’esplosione. Chi abita in zona racconta che certe sere d’inverno c’è gente che va dormire lì dentro: «Ma non si fermano mai troppo a lungo». Non per rispetto del luogo, ma perché non c’è più un solo angolo dove stare al riparo, tanti vetri trovi per terra. E anche a cercarli adesso in questa passeggiata nei capannoni svuotati non trovi giaciglio di disperati che sia uno. Non ci sono tracce passaggi recenti. Eppure qualcuno ha portato nel cortile sul retro anche una vecchia Panda color amaranto. L’hanno fatta entrare attraverso uno dei tanti varchi aperti nella recinzione. E l’hanno mollata lì, senza che nessuno si premurasse di farla recuperare. Ecco, questo è ciò che resta della «Fabbrica dei tedeschi», per dirla con Mimmo Calopresti.

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