Cara Lorenzin, te lo diamo noi un consiglio creativo (gratis): chiedi scusa

Oltre il contenuto, oggi come ieri il problema della politica è l'atteggiamento: arrampicarsi sugli specchi. Senza ammettere le proprie responsabilità

(Foto: Lapresse)

A quattro giorni dal Fertility Day – un giorno utile trasformato da settimane in un autodafé politico di rara pervicacia – varrebbe la pena chiudere definitivamente le polemiche con un gesto trasparente, onesto, definitivo: chiedere scusa.

La ministra della Salute Beatrice Lorenzin ha fornito, nel seguito alla disgraziata campagna di comunicazione messa in cantiere per l’evento dedicato alla sensibilizzazione degli italiani alle problematiche dell’infertilità, l’esempio di un classico atteggiamento della politica italiana. Un approccio che neanche i movimenti populisti sembrano aver dimenticato: quello di arrampicarsi sugli specchi. Senza la sensibilità di guardarsi indietro per ammettere un errore. E mostrarsi, almeno per un momento, trasparenti nei confronti dei cittadini. Empatici direi, se non fosse troppo.

Lo scorso 23 settembre, intervistata da Lilli Gruber a Otto e mezzo e non contenta del triste video in cui ad alcune agenzie di stampa raccontava la differenza fra l’opuscolo discriminatorio approvato dal suo gabinetto e quello in effetti diffuso dal dicastero, avrebbe infatti trovato la giusta ribalta per scusarsi. E invece si è impegnata, con un certo masochismo va detto, per peggiorare le situazione, perpetuando l’idea che il lavoro dei creativi – per quanto, come ha spiegato Oliviero Toscani al Wired Next Fest col suo solito approccio provocatorio, chiunque si definisca tale “è un cretino” – sia in fondo un passatempo da fighetti. In un mondo dominato dalla comunicazione, significa semplicemente non avere consapevolezza di dove si viva.

Noi chiediamo alla Testa e ad altri creativi di aiutarci, possibilmente a titolo gratuito, perché dobbiamo far quadrare il nostro bilancio, a trovare una nuova denominazione per questa giornata” ha spiegato alludendo alla nota pubblicitaria Annamaria Testa che aveva criticato il nome inglese della giornata. Poco prima di chiederle aiuto per trovare un nuovo titolo aveva invece confermato che l'ultimo manifesto dell'iniziativa era stato "fatto fare a dei creativi che si sono offerti di farlo gratuitamente". Fra parentesi: di chi si tratta?

Un paio di giorni dopo Vicky Gitto, presidente dell’Art Directors Club Italiano, ha risposto sulla Stampa che “una cosa è dare una consulenza super partes, spiegando come si deve correttamente fare un lavoro di comunicazione, una cosa è realizzarlo. È impensabile pensare di lavorare gratis”. È impensabile che si debba ancora specificarlo. Ed è impensabile che il ministero della Salute, vulcano di sprechi e di squilibri straordinari, non sia riuscito a partorire una campagna dignitosa su un tema tanto importante affidandosi a un’agenzia decente e confezionando un bando sensato. Speriamo nel prossimo, sul quale Lorenzin di voler spendere "anche un euro in più".

Ma il punto non è tanto la vicenda in se, sulla quale è stato scritto e detto tutto. Il problema è appunto l’atteggiamento di Lorenzin, che in pratica non ha minimamente pensato di chiudere la faccenda. L’ha spostata da se, rimuovendo (a quanto pare, vedremo) la responsabile della comunicazione del ministero, un’avvocata che probabilmente non avrebbe mai dovuto occupare quella poltrona (se per certi mestieri si avesse un minimo di rispetto) e lanciando una sgangherata difesa non tanto della campagna quanto della sua genesi. Ma al pubblico non interessa la genesi, interessa il risultato diffuso. Su quello si sarebbe dovuta concentrare, chiedendo scusa per gli stereotipi e i luoghi comuni infilati nel frullatore per settimane prima con i manifesti e poi con l’opuscolo.

Ma chiedere scusa non apparteneva alla classe politica di qualche anno fa e non appartiene ai “nuovi” di oggi, per i quali il problema è sempre dei "giornalai". Si va avanti più o meno come al solito, calpestando la sensibilità delle persone, difendendo l’indifendibile, sputando sul lavoro degli altri, schivando le responsabilità di un certo tipo pensando che pesino meno di altre. Aspettando che la faccenda s’insabbi da sola, che si passi alla prossima chiacchiera da social network. Per le dimissioni, figuriamoci, serve uno scandalo di proporzioni clamorose. Non ci si pensa neanche per questioni simili, vuoti culturali che altrove condurrebbero senza problemi alla porta.