1 Aprile 2011 5 commenti

Boris – Il film di Marco Villa

In attesa del radiodramma. E quindi della morte.

È meglio essere chiari fin dall’inizio. Boris – Il film è bello, intelligente e fa ridere tanto. Soprattutto, fa ridere tutti: sia chi ha rivisto mille volte gli spezzoni della serie su YouTube, sia chi ancora non conosce il significato del verbo smarmellare (beato lui, ha davanti un mondo intiero da scoprire). Quindi Serial Minds non solo consiglia, ma obbliga e ricatta moralmente gli affezionati lettori ad andare a vederlo. Ma non in generale, no: questo weekend, perché solo un successo forte e immediato può farlo diventare un caso cinematografico.

Perché un caso televisivo, è chiaro a tutti, lo è già da quasi quattro anni. Prima (e più) di Romanzo Criminale, Boris è andato oltre il semplice godimento nel seguirlo, per diventare un vero e proprio fenomeno di culto. Un fatto senza precedenti e paragoni per il mondo televisivo e cinematografico italiano. Ancora più sorprendente perché ha attecchito in una nicchia piuttosto fighetta, che normalmente disdegna il tormentone o il parlare per battute di comici. Invece, dai set reali fino ai discorsi tra amici, negli ultimi anni è stato un fiorire di cazzi di cane e bbuci de culo. Insomma, a voler fare i seri ci potrebbe stare anche un saggio di qualche pagina sull’impatto della serie nel linguaggio quotidiano di una precisa subcultura. E sti cazzi!
Il paragrafetto d’apertura vi fa già capire che il passaggio dalla tv al cinema è stato indolore. Anzi, ha finalmente soddisfatto quella voglia di Boris che le puntate da 20 minuti finivano sempre per frustrare. La versione cinematografica non poteva che essere così: è fatta bene, è divertente e c’è tutto quello che potete immaginare. Comprese le nuove invenzioni di linguaggio, tra le quali spicca la lapidaria: “dopo la tv c’è il cinema, dopo il cinema la radio. E poi la morte”. Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, insomma, sono totalmente a loro agio anche alle prese con il grande schermo.

Al di là di queste cose da recensione classica, ci tengo però a fare un parallelismo che puzza lontano un miglio di sega mentale, ma che ho in testa da quando ho visto il film e proprio non riesco a tenere per me. Il parallelismo in questione è tra Qualunquemente e Boris.
Qualunquemente è il film di Antonio Albanese uscito all’inizio dell’anno e incentrato sul personaggio di Cetto La Qualunque, orrendo politicante, marcio fino al midollo. Una figura agli antipodi rispetto a René Ferretti, un puro costantemente disilluso, ma in fondo ancora speranzoso di poter fare cose migliori della monnezza che gira abitualmente. Ebbene, nonostante questa distanza abissale, i due sono le facce e i corpi principali di pellicole che dicono: “Non c’è speranza: non si esce vivi dalla mediocrità”. Cetto e René partono da posizioni opposte: il primo grottesco portabandiera del marciume, il secondo animato dalle migliori intenzioni. Il punto d’arrivo è il medesimo, ovvero un’accettazione (beata in un caso, coatta nell’altro) della mediocrità come cifra professionale e – chiedo scusa – esistenziale. L’atmosfera del finale di Qualunquemente, in cui tutti sono felici e contenti tranne lo spettatore, è infatti vicina a quella di Boris, come a dire che c’è una zona grigia capace di unire il peggio e il meglio, anestetizzandoli e rendendoli tremendamente simili.
Come dicevo, è un parallelismo da sega mentale, perché i film sono diversi per andamento, ritmo, tipo di comicità e anche esiti finali.
Tra i due vince a mani basse Boris, che rinnova e potenzia il proprio immaginario, grazie a nuove battute da mandare a memoria e ad altre scene da rivedere all’infinito.
Con la speranza che il fenomeno smetta di essere di culto e diventi fenomeno a tutto tondo.
Di qualità.



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