1936-2017

È morta Trisha Brown, icona della danza contemporanea

di Marinella Guatterini

(AFP)

2' di lettura

La scomparsa di Trisha Brown è una perdita annunciata. Dal 2008 questa imprescindibile capofila della storica Post Modern Dance - nata ad Aberdeen, nello stato di Washington, nel 1936 e scomparsa a San Antonio in Texas il 18 marzo 2017 - si era ritirata dalla sala prova, luogo per lei vitale: l’unico in cui la sua mente calcolatrice e strategica, ma ormai svanita nei misteriosi fumi dell’Alzheimer, riusciva a ritrovare il bandolo di una matassa non solo creativa. Poi il definitivo internato, lo shock dei suoi collaboratori, dei tanti ballerini cui ha insegnato la morbidezza del release, la liberazione dal tono muscolare e il fluire nello spazio, o free flowing. Una modalità di lavoro da lei intesa come “umanesimo corporeo della non violenza”, rifiuto di ogni forma costruita e del virtuosismo come potenza fisica di un corpo danzante tutto in tensione.
Trisha amava la scioltezza e costruiva coreografie magnifiche che parevano buttate li come si lancia una manciata di palline che andranno a finire chissà dove e chissà perché lì o là. E invece erano frutto di calcoli minuziosi, di una complessa “ingegneria” del movimento, tanto più stupefacente in quanto il corpo che danza vi appare, proprio in contrapposizione alla complessità coreografica, totalmente rilassato.

Con il successo internazionale di Set and Reset (1983) si scoprì tutta la sua sensibilità, ma anche la novità del suo stile, in grado di pensare il corpo in relazione all’ideologia e alla storia. Trisha, ricercatrice a oltranza e ballerina longeva - quasi sessantenne si esibiva ancora in un assolo - su musica del pittore Robert Rauschenberg, suo grande amico - dando le spalle al pubblico (era If You Couldn't See Me del 1994) apparteneva alla storia di un’avanguardia rumorosa. Le sue prime sperimentazioni avevano destato clamore, come quando, alla fine degli anni Sessanta, scalava i grattacieli del quartiere newyorkese di Soho, chiamando le sue pericolose ascensioni in cordata “danze” e “sfide alla forza di gravità”. Allieva di artisti della Modern Dance, e di Merce Cunningham, cofondatrice del gruppo della Judson Church, e nel 1970 di una sua compagnia, si mise ad accumulare movimenti naturali con ossessione e un pizzico di ironia, bandendo non solo il virtuosismo, ma anche ogni tentazione musicale.
Tuttavia, con il passaggio alla scena teatrale la sua danza cominciò a intrecciare molteplici collaborazioni, alla fine anche musicali. L’aspetto scientifico del suo lavoro, il procedere per cicli o periodi di ricerca, non entrò in crisi neppure nel momento in cui decise di incontrare sistematicamente i suoni del passato, il jazz, Webern, Monteverdi, Schubert e l’opera contemporanea del nostro Salvatore Sciarrino. Con lei che tanto avremmo voluto premiata da un Leone d’oro alla Biennale Danza di Venezia, se ne va una coreografa più che geniale e una donna algida e appassionata, ironica e sbarazzina. Ghiaccio bollente, come Glacial Decoy, il titolo di una sua misteriosa coreografia.

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