Elio Ugenti, Immagini nella rete. Ecosistemi mediali e cultura visuale

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 copertina de Immagini nella rete. Ecosistemi mediali e cultura visuale, Milano-Udine, Mimesis, 2016

Immagini nella rete. Ecosistemi mediali e cultura visuale (Mimesis, 2016) propone uno studio delle pratiche visuali contemporanee che tenta di spostare l’asse teorico e analitico dagli oggetti visivi al sistema instabile di cui fanno parte. Nel panorama postmediale, frammentato e interconnesso, la visualità può essere definita come un «set ecologico» (p. 175), un modello necessario per tenere in considerazione tutte le (re)azioni degli elementi in gioco.

Nella cornice introduttiva e conclusiva l’autore espone il percorso circolare svolto all’interno del testo. Nel primo capitolo si analizzano le sistematizzazioni teoriche sulla visualità per comprendere la loro attualità all’interno dello scenario contemporaneo, definire l’oggetto di studio e il senso metodologico di una convergenza interdisciplinare. Ugenti esplicita così i presupposti che stanno alla base dell’individuazione, nel secondo capitolo, di una serie di strumenti d’indagine applicati a uno specifico ambiente mediale: l’iconosfera online delle piattaforme del web 2.0. La comprensione delle sue strutture e dinamiche consente infine, nel terzo capitolo, l’analisi delle pratiche che investono una tipologia di immagini (amatoriali, personali e occasionali). Le trasformazioni in atto delle relazioni, dei processi e delle logiche tra soggetti, oggetti visivi e ambienti mediali innescano secondo l’autore un cortocircuito pratico e analitico. Il loro complesso movimento osmotico diventa parte integrante dell’ecosistema visuale contemporaneo e porta a un necessario ripensamento del concetto stesso di visualità, da cui Ugenti era partito.

La ricognizione storico-analitica percorre le diverse linee di pensiero delle discipline confluite negli studi di cultura visuale. Le questioni e le critiche sorte nel corso del tempo risultano fondamentali per comprenderne i limiti e le potenzialità del presente. I vari modelli dedicati al nesso tra visualità, società e cultura (le idee di Krauss e Foster, la svolta culturalista, i visual studies angloamericani, le teorie dell’immagine franco-tedesche, i media studies, la psicologia della percezione e la filosofia fenomenologica) gettano le basi per un’analisi delle dinamiche di mediazione tra l’universo socioculturale, la configurazione delle immagini come oggetti e atti culturali e i dispositivi che ne consentono la produzione, la fruizione e la circolazione. L’attenzione volta al contesto, alle relazioni e alle pratiche messe in atto porta a una considerazione più ampia dell’esperienza del soggetto-spettatore e dell’«accadere dell’immagine» (p. 61).

La mediatizzazione visuale della socialità e la «dimensione sociale del guardare che è invece “storicamente e culturalmente variabile”» (p. 23) sono dalla fine dell’Ottocento sino a oggi sempre più intrecciate; basti pensare al processo di adattamento reciproco tra lo sviluppo del linguaggio filmico e le capacità visive del pubblico, fino ad arrivare a una loro inestricabilità nel panorama postmediale contemporaneo. La proliferazione delle immagini e delle pratiche visuali, la presenza massiccia e sovrapposta di dispositivi, la frammentazione e (ri)contestualizzazione degli oggetti visivi rendono necessaria una rete diversificata di approcci metodologici e modelli teorici per seguire le loro interrelazioni dinamiche lungo traiettorie e confini imprevedibili.

Snodo cruciale in tal senso diventa la svolta del Pictorial turn di Mitchell, un ponte tra la tradizione dei visual studies e dei media studies, che ci permette di guardare le immagini come un «“prodotto culturale reale che ha una vita, una consistenza mediale e una circolazione”» (p. 60). È necessario tener conto sia dei modi d’esistenza delle immagini, del loro statuto mediale di picture, che del loro contenuto cioè del loro statuto di image: «“un’interazione complessa tra visualità, apparato, discorso, corpi e figuratività”» (p. 76).

Rispetto alle macroriflessioni teoriche e ai case studies precedenti, Ugenti sceglie di «soffermarsi sui “reali, concreti processi di oggettivazione della cultura e di soggettivazione dello sguardo che passano attraverso la visualità”» (p. 77) per elaborare un modello ecologico intermedio, che tenga conto delle «relazioni tra soggetti, ambienti mediali e immagini». I suoi meccanismi di funzionamento sono particolarmente evidenti e trovano un’applicazione pratica nell’ecosistema mediale contemporaneo. L’approccio proposto è il risultato della definizione di una «logica relazionale e dinamica» (p. 8) tra un’ecologia dei media, un’ecologia della percezione e un’ecologia delle immagini.

Il superamento delle specificità mediali, in primo luogo, genera un flusso osmotico tra l’ipermediazione visuale delle pratiche quotidiane e il senso di im-mediatezza dell’iconosfera online, sentita sempre più come spazio d’azione reale. La forma logica e culturale alla base sembra essere quella del ‘database’, proposta da Manovich. Piattaforme di social networking, content aggregator, wiki e app si configurano come ambienti mediali rizomatici in cui diversi soggetti, immagini, testi, strutture paratestuali, azioni e conoscenze condivise inter-agiscono (ri)modellando ciclicamente l’intero sistema. Al loro interno è in atto un’operazione di montaggio, un processo associativo continuo, di frammenti non lineari. Ciò non significa, però, rinunciare a una qualche forma logica di tipo lineare.

La performance del soggetto-spettatore, infatti, assume un ruolo centrale. Come un «flaneur 2.0» si muove attivando una percezione multisensoriale all’interno di nuove strutture narrative e mediali picaresche: frammentate, cioè, nello spazio e nel tempo in cui entrano a contatto diversi (s)oggetti. È un percorso conoscitivo instabile che procede per intuizioni e prove, adattamenti costanti alle libertà e ai vincoli dell’ambiente, attuando però una serie di tattiche d’uso che riconfigurano le stesse piattaforme. Si costruisce così, allo stesso tempo, una qualche forma di coerenza narrativa, di tipo epico, data dall’operatività individuale all’interno di una coralità condivisa.

Le immagini, infine, ‘vivono’ all’interno del sistema come sguardi ri-creati di continuo, frammenti incarnati associati dal pensiero, dall’immaginazione o dalla memoria. Nel loro allestimento portano con sé il germe del loro utilizzo o ri-utilizzo, risonanze di altre immagini o esperienze. Un’energia potenziale che il soggetto (ri)attiva attraverso un’inter-azione ludica e virale (es. mashup, remix, meme), pratica (es. selfie) o elaborativa (es. video essay). Ogni immagine è un intreccio di diversi sistemi discorsivi, che genera nella rete nuove pratiche iconico-testuali. Qui possono essere esposte direttamente senza l’ausilio del testo, associarsi didascalicamente o alternativamente alla componente verbale o dar vita a una forma di ekprasis inversa al suo interno, ma sempre in relazione dinamica rispetto all’intero contesto in cui circolano. La portata mediatica, cioè il loro grado di diffusione, dipenderà dal carico di memoria in essa inscritto che (ri)genera un patrimonio iconografico quotidiano o artistico costantemente (ri)esponibile, «qualcosa di simile a ciò che Casetti definisce come re-rilocazione”» (p. 95).

 Schema riepilogativo dell’ecologia delle immagini da S. Manghani, Image Studies. Theory and Practice, Routledge, London, New York 2013. Courtesy Sunil Manghani

È importante notare un ultimo esempio di (ri)adattamento dell’ambiente mediale. Non sono solo le piattaforme dei media digitali a riconfigurarsi secondo l’uso e quindi le capacità visive del soggetto-spettatore. Un cortometraggio come Noah mostra come il cinema si appropri delle logiche dell’ipermediazione. Si svolge per intero all’interno di un’interfaccia digitale, come se fosse uno spazio reale. È solo uno degli esempi del cortocircuito visuale di cui parla l’autore. Al di là della trasformazione qualitativa delle immagini, della comparsa di nuove forme di spettatorialità e storytelling, ciò che emerge così dallo studio di Ugenti è la relazione e il potenziamento biunivoco tra natural vision e snapshot vision, che definisce i tratti peculiari del regime scopico della cultura visiva contemporanea e del regime estetico postmediale.

È difficile comprendere se questi cambiamenti porteranno, come si chiede l’autore alla fine, a un «superamento della visualità come oggetto di studio» o a un suo ripensamento come «visualità estesa o integrata» (p. 174). Possiamo solo cogliere l’invito a un diverso ‘saper guardare’ alle immagini, a proseguire nella ricerca di «strumenti di lettura efficaci e quanto più possibile malleabili» (p. 173). L’instabilità dell’ecosistema visuale contemporaneo quindi non è un problema, ma solo un elemento connaturato se al centro vi è una qualche forma di visual literacy pratica e analitica: «una via per utilizzare in modo costruttivo l’onda visiva che quotidianamente ci investe» (p. 97). Ogni studio attendibile sarà così un ‘montaggio’ di letture, che si configureranno sempre «come delle stazioni di sosta dalle quali ci è consentito fotografare l’immagine intermedia di un oggetto in trasformazione» (p. 173).