Fotografia come ottimismo rivoluzionario. Addio Romano Cagnoni

CagnoniLife“Lei è un ottimista”, gli disse Ho Chi Minh scrutandolo con attenzione, “e l’ottimismo fa il buon rivoluzionario. Fotografi pure”. Scoppiò in una risata di gusto, assieme al suo braccio destro Pham Van Dong: e quella risata finì, poche settimane dopo, nel gennaio del 1966, sulla copertina di Life, che allora vendeva sette milioni di copie.

Romano Cagnoni ce l’aveva fatta. Non solo a entrare, tra i pochissimi fotografi non comunisti, in Vietnam del Nord; ma anche ad avvicinare e a convincere il capo supremo, molto riluttante , a farsi prendere un rarissimo ritratto. Gli era bastato dirgli, con l’ingenuità di un ragazzo che non s’arrendeva al primo rifiuto: “I popoli d’Occidente che amano la libertà sarebbero lieti di vederla in buona salute”. Fu uno scoop mondiale.

Eppure Romano Cagnoni, che si è spento il 30 gennaio scorso a 82 anni nella sua Pietrasanta, dove era tornato a vivere dopo mezzo secolo da errante planetario, fatica ancora ad essere conosciuto dai più come uno dei maggiori fotoreporter italiani del Novecento.

Narratore instancabile di un mondo turbolento di cui ha raccontato, fin dagli anni Sessanta, la prima feroce globalizzazione, quella delle guerre postcoloniali, per continuare fino alle guerre asimmetriche e ai conflitti etnoreligiosi della fine del secolo.

Del resto, ventitreenne, se ne andò dall’Italia proprio per questo, perché non vedeva strade aperte, qui da noi, alla sua passione per la fotografia, scoppiata sulle spiagge della Versilia facendo lo scattino per i bagnanti.

Quelle strade passavano da Londra, dove finì per vivere parecchi decenni della sua vita, e dove mantenendosi come lavapiatti incontrò un allevatore di talenti, Simon Guttman, intellettuale tedesco ormai apolide con un fiuto per il fotogiornalismo, che gli aprì le porte delle redazioni.

La sua originale, antiretorica copertura della campagna elettorale del laburista Wilson, nel 1964, convinse molti che quel ragazzino italiano entusiasta aveva talento. Per i funerali di Churchill, il Sunday Times scelse due foto simbolo: una di Henri Cartier-Bresson, l’altra era sua. Poi vennero decine di altre copertine e di foto da prima pagina e centinaia di servizi sul Times, l’Observer, il New York Times, il Guardian, in Italia per L’Espresso e Epoca. 

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Romano Cagnoni, Reclute in Biafra, 1968. © Romano Cagnoni

Nel corso dei decenni Cagnoni coprì le aree più calde del pianeta, dalla Cambogia a Israele (dove seguì la guerra dello Yom Kippur), dal Cile di Allende (dove lavorò fianco a fianco con Graham Greene) all’Argentina di Peron, fino in tempi più recenti ai Balcani, alla Cecenia, al Medio Oriente.

Ma seguì soprattutto e con grande partecipazione umana l’Africa delle carestie e delle guerre. Scoprì il Biafra da solo, quando pochissimi giornali ne parlavano, spulciando come continuò sempre a fare la stampa internazionale fin nelle pagine più marginali, per cercare gli eventi che sarebbero diventati notizie da prima pagina.

In una delle sue foto più celebri da quel paese decine di reclute a petto nudo, schiacciate dal teleobiettivo in una massa compatta, sono l’icona della spersonalizzazione letale di un continente in fiamme. Ma la ragazzina incinta che attraversa un esilissimo ponticello in Nuova Guinea è un canto di speranza e di poesia.

In una bella recente intervista al sito Maledetti fotografi Cagnoni ha confessato di non essersi mai considerato un fotogiornalista, ma “un fotografo che pubblica le sue foto sui giornali”. Fotografo umanista costretto a raccontare la disumanità, la sua paura più grande era di ripetersi, di cadere in un cliché, di “diventare un robot insensibile”.

Nel 2015, ormai vicino agli ottanta, entrò clandestinamente in Siria, con la terza moglie Patricia Franceschetti, fotografa come lui, scavalcando di corsa il confine turco per evitare il tiro delle guardie di frontiera. Ma questa volta non fece foto: mise in mano uno smartphone ai ragazzi di laggiù e chiese loro di farsi un selfie che gridasse al mondo “io esisto”.

Ma quale robot, ma quale cliché. Aveva ragione zio Ho. L'ottimismo rivoluzionario della volontà di fotografare. Contro il pessimismo delle ragioni del mondo.

[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 31 gennaio 2018]

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7 commenti

  • Grazie per la segnalazione Damiano, ho ripristinato il link corretto.
    Il Fotocrate

  • Ho dimenticato di segnalarti che il link "chiese a loro" riguardo alla Siria rimanda alla foto della ragazza in Nuova Guinea. O almeno questo è quanto accade sul mio pc.
    un saluto

  • Grazie Michele per aver scritto di questo fotografo che non conoscevo.
    Il tuo racconto mi ha quasi commosso, soprattutto quando alla fine ho letto del suo viaggio da ottantenne in Siria armato di smartphone.
    Cagnoni; me lo appunto sull'agenda.

  • In realtà una foto abbastanza significativa la fece a Kobane: rappresenta una ragazzina che fotografa con il suo cellulare un cadavere che spunta da un edificio crollato. Una foto epitaffio del fotogiornalismo d'autore: il citizen photographer arriva prima e spesso si prende lo spazio sui media, quando arriva il professionista è già tardi, e non vende.

    Durante gli anni d'oro, a Londra e alla redazione di Stern, gli dicevano che il suo modo di fotografare mostrava un tratto tipicamente italiano, forse rinascimentale, cosa che lo lasciava un po' interdetto, ma poi pensava che forse l'esser nato e cresciuto in Toscana aveva avuto la sua importanza: il paesaggio, l'architettura, gli artisti del marmo potevano essere stati la scuola non cercata ma fondamentale per la sua educazione visiva.

    Lo ricordo anni fa a Parigi, ospite dell'amico Abbas, cercare di comprendere i meccanismi del mercato tra i corridoi di Paris Photo. Un tipo di attività strana per uno che la fotografia l'aveva sempre vissuta in ben altri contesti, con altre urgenze, molto più umane. Un mestiere che dovrebbero fare altri, non i fotografi stessi, ma con questi altri non sempre è facile scendere a compromessi o sottostare a logiche che spesso mettono da parte l'etica professionale su cui non era disposto a transigere. E giù incazzature.

    Romano a me ha dato tanto e non finirò di essergli riconoscente. Forse apparteniamo ad un altro mondo, lui come un faro, io nel mio piccolo.

    Grazie Michele per le tue righe sempre utili.

  • Si lo è stato ma poi, da come io so la storia, si è "licenziato".

  • Mi pare che Cagnoni sia stato, per qualche tempo, affiliato a Magnum.
    Il Fotocrate

  • Le fotografie di Romano, pietrasantino come me, mi ricordano anche di un mondo dove siamo entrambi nati e che non c'è più. Un mondo fraquentato da artisti internazionali, sopratutto scultori, e di laboratori di marmo in cui ognuno di noi aveva un qualche parente o conoscente impiegato. Un mondo che esisteva senza i siti dell'unesco tanto per capirsi. Senza nulla togliere al valore del suo lavoro per me le sue fotografie parlano anche una lingua di un sentire locale che si è imposto a livello internazionale per una sua veracità al limite della rissoso. Negli ultimi tempi parlavamo molto della trasformazione della fotografia in arte, cosa questa che a tutti e due andava poco a genio. Se devo fare una considerazine estetica, se ha senso farla di fronte ad un lavoro mai concepito in quei termini, direi che e stata una fortuna che non sia mai diventato un fotografo di Magnum. "Io non avevo bisogno di Magnum per lavorare" diceva, bene così, almeno le sue fotografie, per chi vuole guardarle suonano un'altra musica. Ciao Romano...