1939-2018
Getulio Alviani, l’arte dice addio
all’artigiano della matematica
Friulano, di fama internazionale, fu amico di Arp, Gropius e Lucio Fontana
Fino all’ultimo ha lavorato alla fondazione a suo nome che nascerà a Milano
Aveva portato la luce nell’arte con la semplicità di una lastra di alluminio levigata: Getulio Alviani se n’è andato il 24 febbraio a Milano, a 78 anni, dopo malattia che da tempo lo stava tormentando con dure sofferenze. «Voglio sparire e tornare alla natura, mangiato dai coccodrilli», diceva con l’ironia a chi lo andava a trovare nella sua casa milanese, sempre con le tapparelle abbassate, sempre con i decori natalizi alla porta, arredata con mobili bianchi ed essenziali (che lui stesso aveva disegnato), come essenziale è stata tutta la sua vita di artista poliedrico che lo ha visto protagonista internazionale dell’Arte programmata e cinetica.
Per tutti era semplicemente Get: per i tanti amici, per i compagni di strada, per chi gli riconosceva la sua forza di artista che amava gli artisti, di teorico e polemista, di dissacrante affabulatore (solo un anno fa con Hans-Ulrich Obrist ha raccolto applausi a scena aperta polemizzando a buon titolo sulle distorsioni del sistema dell’arte) di grafico minimalista, di raffinato designer e di architetto. Alviani, friulano di Udine, portava con sé quella cultura del fare tipica della sua terra e forse proprio quel legame col lavoro materiale lo ha condotto verso sculture metalliche come magiche illusioni cariche di energia vibrante: «Quando le cose mi apparivano, e cercavo di scoprirle, mi interessava solo la materia, che si pensa sempre inerte, mentre per me era sempre dinamica, mutevole».
Siamo negli anni Cinquanta e proprio da quelle prime esperienze sperimentali Alviani lavora sulle superfici metalliche, creando una sorta di «testura vibratile». È l’inizio della sua visione dinamica della materia che mette insieme geometrie, luce, forma modulare. Saranno opere moltiplicabili in serie, eseguite sempre a mano libera. Opere dalla forte intensità ottica vibratile grazie a strutture dinamiche e su precisi ordini matematici: la sua è un’arte che insegue la perfezione assoluta. Ma Alviani è soprattutto curioso, in cerca di esperienze, desideroso di conoscenze culturali e umane.
Gli viene così naturale instaurare i primi contatti con i grandi del Costruttivismo: da Georges Vantongerloo a Konrad Wachsmann, da Josef Albers a Max Bill. Sarà l’inizio di una lunga trama di amicizie, che lo porterà sino a Gropius, Arp, Sonia Delaunay e poi a Lucio Fontana, sino al vecchio amico Enrico Castellani, che solo tre mesi fa, poco prima di morire lo ha chiamato pronunciando solo due parole: «Ciao Get». Ma Getulio, che stava già molto male, se n’è andato senza rendersi davvero conto che quel saluto era un addio.
Getulio Alviani era avvolto da un’ammirazione diffusa: per la sua intelligenza di artista sperimentatore fuori dagli schemi, per la sua visione rigorosa e, perché no, per la sua vis polemica, ma soprattutto per il suo fare complice e generoso verso i compagni di viaggio. Lo racconta anche la sua storia artistica. Ha spesso preferito alle proprie mostre un’idea di lavoro di squadra, coinvolgendo così i vecchi compagni di viaggio: «Lo scopo del lavoro è far diventare storicamente oggettiva tutta la storia delle avanguardie russe ed europee fino all’arte logica dei giorni nostri», ricorda. Ma Alviani è stato soprattutto presente in importanti mostre, da quella fondativa del 1962 , Arte programmata nel negozio Olivetti di Milano, alla Biennale di Venezia del 1964 (voluto da Fontana), dalla storica The Responsive Eye al MoMa di New York nel 1965 a quella più recente, del 2013, Dynamo al Gran palais di Parigi, che metteva insieme tutti i protagonisti dell’arte cinetica. Fino a quella del novembre 2017 ancora al MoMa: Thinking Machines: Art and Design in the Computer Age, 1959–1989 in cui il lavoro di Alviani è messo in relazione con l’avvento delle nuove tecnologie informatiche.
Era stato Bruno Munari a inventare la definizione Arte programmata, intesa come opera che nasce su un programma di calcolo, all’interno di un sistema di ripetizioni o variazioni creative. Non a caso Alviani inseguiva in ogni frammento della sua vita l’idea del pensiero progettuale. E la matematica era la sua stella polare: nelle sue lamine di alluminio levigate secondo particolari angolazioni e montate su moduli, nei suoi collage colorati, nelle costruzioni di veri ambienti specchianti come Interrelazione cromospeculare del 1969, in cui le persone agiscono nello spazio confrontandosi con lamine e colori, in uno spettacolare labirinto visivo. D’altronde, Alviani ha posto proprio il tema della percezione al centro del suo lavoro. La sua volontà è stata sempre quella di attivare una sollecitazione dell’occhio, un modo per riflettere sul senso del vedere. Una visione anche pedagogica dell’arte nella società. E ripeteva come un mantra: «L’arte per me è sempre stata progetto».
Una visione rigorosa e una cultura del fare che lo ha accompagnato sino all’ultimo: era riuscito a trasformare la sua stanza dell’ospedale in un ufficio dove, con il suo ultimo amore Diora Fraglica, ha lavorato alla redazione di una nuova monografia e alla creazione di una fondazione che porterà il suo nome: una istituzione con sede a Milano e che sarà anche un centro di ricerche con borse di studio per studenti e artisti.
Dal carattere franco e talvolta surreale, Alviani era avvolto negli ultimi anni da un pessimismo cosmico che lo portava a scagliarsi contro un mondo che non comprendeva e non accettava più. Detestava il conformismo, la superficialità degli artisti, la sciatteria dei collezionisti, le nuove forme d’arte prive di contenuto e i falsi quadri (tanti) che vedeva nelle fiere. Ma non aveva mai perso la sua verve da anarchico controcorrente, perfezionista, testardo e irriverente. Era un burlone col gusto del paradosso. Amava scrivere brevi pensieri: fulminanti aforismi sull’arte ma in tutti i suoi libri pretendeva che i testi fossero soltanto in minuscolo. Riciclava buste e francobolli usati come gesto di sfida contro le regole costituite. E in un angolo della sua casa teneva la foto di un recente capo del governo su cui sputava ogni mattina, ritenendolo causa di vessazioni per lui nocive al Paese e all’arte.
Era così: colto, appassionato, imprevedibile. Da irrefrenabile affabulatore è stato capace di padroneggiare la parola come la materia. Forse per questo ha voluto lasciarci queste parole, malinconicamente profetiche e rigorosamente in minuscolo: «un bel silenzio non fu mai scritto».