CULTURA Letteratura

La notte di Elie Wiesel: un omaggio per non dimenticare

Lo scorso 2 luglio è venuto a mancare il premio Nobel, e sopravvissuto alla Shoah, Elie Wiesel. Vogliamo ricordarlo parlando di una grande opera: La Notte. La recensione è di Francesca Raviola.

PER NON DIMENTICARE - C’è chi si lamenta di quanto ancora si parla della Seconda Guerra Mondiale e dei campi di concentramento, o affermando che è già stato detto tutto quello che c’era da dire oppure ricordando che non è l’unica tragedia nella storia dell’umanità. La seconda considerazione è sicuramente vera, ma non è un buon motivo per non parlare dell’Olocausto. La prima, invece, mi sembra del tutto insensata. Io, onestamente, pur avendo letto e studiato moltissimo sull’argomento, riesco ancora a stupirmi ogni volta che mi avvicino alla testimonianza di un deportato.

ELIE WIESEL - Il 2 luglio è morto nel suo appartamento a Manhattan Elie Wiesel, Nobel per la Pace e grande sostenitore dei diritti umani. Wiesel è stato deportato nel 1944 prima ad Auschwitz e poi a Buchenwald insieme alla sua famiglia. La madre e la sorella più piccola sono morte subito in uno dei tanti forni crematori. Le due sorelle più grandi si sono salvate, mentre il padre ha resistito quasi fino alla fine, per poi morire a pochi giorni dalla liberazione indebolito dalla dissenteria e massacrato di botte da un ufficiale.

LA NOTTE - La notte, pubblicato in francese nel 1958 e tradotto in italiano per l’editore Giuntina da Daniel Vogelmann, racconta l’esperienza di Wiesel nei campi di concentramento. L’estrema sinteticità del racconto, la brevità delle frasi, la generale semplicità di scrittura riescono a rendere ancora più spaventosa e terribile la mostruosità di quello che ha vissuto: “L’idea di morire, di non essere più, cominciava ad affascinarmi. Non esistere più, non sentire più questo terribile dolore al piede. Non sentire più nulla: né fatica, né freddo… Nulla. Saltare fuori dalla fila, lasciarsi scivolare sul margine della strada…”.

Prima della deportazione, nessuno a Sighet, paese natale dello scrittore, vuole credere a quello che sta succedendo: “Non era né il tedesco né l’ebreo a regnare nel ghetto: era l’illusione”. Anche se è ormai il 1944, e gran parte del mondo occidentale è ormai a conoscenza di ciò che accade nei campi tedeschi, in Transilvania evidentemente le notizie non sono arrivate. L’unico testimone, riuscito a fuggire dopo essere stato catturato, non viene ascoltato: anzi, viene creduto pazzo. È con grande stupore, quindi, che gli ebrei di Sighet salgono sui treni diretti ad Auschwitz, tanto da non rendersi conto di ciò che sta succedendo loro fino al momento dell’arrivo.

Una volta arrivati, però, sono costretti ad affrontare la realtà. Ormai sappiamo tutti molto bene quali erano le condizioni di vita (e di morte) all’interno dei campi di sterminio. Eppure, la consapevolezza non toglie niente all’orrore. Parola dopo parola, riga dopo riga, Eliezer, come l’autore si chiama all’interno del libro, perde se stesso, la sua stessa umanità. Uno degli effetti più devastanti dei campi era proprio la spersonalizzazione: Wiesel racconta di come i padri lottassero persino contro i loro stessi figli per sopravvivere. Anche l’autore ha paura di perdere del tutto il proprio affetto per il padre: lotta fino alla fine con se stesso per non considerarlo un peso, persino quando un altro prigioniero gli dice che l’unico modo per sopravvivere è pensare solamente a se stessi.

Un passaggio mi ha particolarmente colpito, perché mi ha ricordato la rappresentazione che degli ufficiali nazisti fa Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria: nel film, i soldati tedeschi sono raffinati, educati, gentili, mentre i soldati americani sono rozzi e volgari. Allo stesso modo Elie Wiesel, quando riporta la prima impressione che gli ufficiali di Hitler fecero sugli ebrei di Sighet, li descrive come freddi, ma educati: “Non domandavano mai l’impossibile, non facevano osservazioni sgarbate e a volte perfino sorridevano alla padrona di casa”. Il contrasto tra questa immagine dei tedeschi e ciò che fecero all’interno dei campi di concentramento è disarmante.

La notte è una testimonianza importante, imprescindibile se si vuole conoscere la natura e la storia dei campi di concentramento. La scrittura di Wiesel, così essenziale, trasmette al lettore tutta la disperazione e la follia dell’Olocausto, rendendo la sua esperienza monito indimenticabile ai posteri.

Francesca Raviola