MONDO

Una rivoluzione è per tutte e tutti?

Ventiquattro anni dopo il primo gennaio 1994 l’EZLN continua a parlare, e a far parlare di sé. Chiusa la seconda edizione del ConCiencias por la Humanidad, festival di scienza critica e anticapitalista, si guarda alla festa della donna e al “Primo Incontro Internazionale, Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle donne che lottano” che si svolgerà a marzo 2018 nel Caracol di Morelia. Ma si guarda anche al percorso di raccolta firme di Marichuy (candidata indigena alle elezioni presidenziali) e del Consiglio Indigeno di Governo e alle elezioni della prima domenica di luglio

Lo sguardo è ampio, complesso e prospettico e non è certo il punto di vista di chi si sente in difficoltà, ma di chi rilancia e cerca spiragli nel buio. O come direbbero loro «una crepa nel muro».

Ma non è per tutti e per tutte. Ed è il SupMoisés, nel discorso commemorativo dei primi 24 anni di rivolta, a dare alcuni esempi di chi è fuori dalle orbite zapatiste: «Perché vi chiedo, chi ha una vita degna? Chi è che non vive nell’angustia di poter essere assassinat*, derubat*, pres* in giro, umiliat* o sfruttat*? Se tu puoi stare tranquillo e non preoccuparti, bene, queste parole non sono per te». Ma anche «quindi se tu pensi che quello che succede, succede perché lo vuole Dio, oppure è sfortuna, o è il destino che ti spetta, allora questa parole non sono per te».

Una sorta di perimetrazione di classe, che non è né sociale né etnica, ma di parte, condizioni, e prospettiva. Le parole del capo militare e portavoce dell’EZLN sono chiare e dirette. E si sommano a quelle del SupGaleano scandite nei tre interventi del ConCiencias. Il capitalismo è un crimine fatto di tanti crimini, e di questo crimine si può essere complici o oppositori. L’opposizione passa dall’organizzazione, dalla critica, dall’aprire e ingrandire crepe nel muro con cui il capitalismo si protegge e genera distanze. Non è il tempo dell’elemosina, delle concessioni e del gioco dentro le maglie del potere, è il momento di costruire il mondo nuovo. Questo per gli zapatisti e le zapatiste è l’autonomia.

Sembrerebbe esserci un’evidente contraddizione tra queste parole ed il sostegno al percorso elettorale di Marichuy, portavoce del Consiglio Indigeno di Governo delle popolazioni indigene messicane che si riconoscono nel CNI. Ma Moisés lo dice chiaramente: «Organizziamoci affinché la compagna Marichuy e il Consiglio Indigeno di Governo possa girare per il paese, anche se non raggiungerà l’obbiettivo delle firme per essere candidata. Perché le firme non sono quello per cui sta lottando, non è quello per cui ci stiamo organizzando, siamo noi che dobbiamo ascoltarci, conoscerci e così, capendo come stiamo, possiamo capire come organizzarci in maniera migliore e proseguire il cammino».

Nuovamente un pezzo della proposta viene svelato in maniera ufficiale, formale e facilmente decodificabile: la candidatura serve prima di tutto a creare organizzazione, unire popoli e lotte, creare una rete. Certo non possiamo far finta che, se non si raggiungerà il risultato, il potere farà i suoi conti. Le 870mila firme necessarie sembrano davvero lontane dall’essere raggiungibili. Ad oggi secondo i dati ufficiali dell’Istituto Nazionale Elettorale il Consiglio Indigeno di Governo e Marichuy hanno raccolto 127.819 firme. Negli ambienti più vicini si parla di circa 150mila. Ma cambia poco. In politica, azione e reazione sono strettamente correlate, il raggiungimento o meno dell’obiettivo metterà in moto venti diversi da parte dei poteri che agiscono in Messico, e così da parte dell’EZLN e del CNI. Mentre scrivo queste righe sono convinto che Marichuy sarà una delle donne che dall’8 al 10 marzo animerà l’incontro internazionalista e femminista di Morelia, e quello sarà uno dei momenti in cui si capirà come proseguirà il percorso iniziato il primo gennaio dell’anno scorso con la scelta di entrare in maniera indipendente dentro la macchina elettorale messicana.

Il tavolo elettorale messicano è più corrotto e viziato della peggior cantina dove si gioca d’azzardo in maniera illegale. A parte il 2000 con la vittoria di Fox e del Pan, è abbastanza esplicito che dal 1988 in poi in Messico non ha governato chi ha vinto davvero le elezioni, anzi chi ha vinto davvero le elezioni è stato colpito da frodi elettorali. Le prove ci sono, ma troppo spesso chi ha subito la frode ha poi deciso di sedersi al tavolo della trattativa. Come fatto da Andrés Manuel López Obrador, nel 2006, che dopo aver lanciato il “governo ombra” e il presidio nello zocalo di Città del Messico ha poi optato per un dialogo con Calderón. È difficile pensare che la tornata del 2018 sarà diversa. Tra la legge di Sicurezza Interna, che dà all’esercito la possibilità di agire operazioni di ordine pubblico, la violenza dei gruppi di potere che troppo semplicisticamente vengono definiti narcos, ma che sono qualcosa di molto più complesso, radicato, e ramificato, e con le attenzioni nordamericane quello che accadrà la prima domenica di luglio sembra essere deciso ben lontano dalle urne e dalla volontà popolare.

In questo scenario Marichuy, il CNI e l’EZLN giocano una partita che ha ben poco a che vedere con lo scacchiere elettorale. L’attenzione non è a chi vota, ma a chi sta fuori dal campo, a chi è escluso e a chi non crede più in quel sistema. E questa partita parla di organizzazione dal basso, resistenza e di ribellione.

A cannone, come si dice l’inno nazionale messicano, torna il SupMoy «Se pensi che qualcuno, un leader, un partito, un’avanguardia risolverà tutti i problemi e devi solamente mettere una x sulla scheda elettorale, così tanto facilmente, pensa bene se davvero è così. Quindi queste parole non sono per te. Stai lì tranquillo, stai lì tranquilla e aspetta una nuova burla, una nuova frode, un nuovo inganno, una nuova menzogna, una nuova disillusione. Che poi non sono nemmeno nuove ma le stesse di sempre, cambiano solo la data e la pagina sul calendario».

La paura e la violenza hanno nomi diversi ma sono lo strumento di controllo di massa del nostro secolo: in Messico si chiama “narcos e guerra alla droga”, in Europa si chiama “terrorismo islamico e migrazioni”, in medioriente e nel Pacifico si chiama “guerra” ma sono lo stesso perimetro che permette al potere di stringere gli spazi di libertà e a chi vive in quelle geografie di accettare la riduzione di libertà in nome di una sicurezza che non ci può essere.

L’EZLN è ben saldo nella navigazione, nonostante gli attacchi che quotidianamente subisce dal fronte politico messicano e dagli interessi economici che vorrebbero tornare a dominare alcune aree dove l’influenza zapatista impedisce di mettere a valore i territori, ed è nella chiusura del SupMoy la sintesi della proposta attuale, che potrebbe sembrare semplicistica e ingenua e che dice: «Siamo sicuri che se ci sono popoli che si organizzano e lottano saremo in grado di ottenere quello che chiediamo, quello che meritiamo, cioè la nostra libertà. E la forza fondamentale è la nostra organizzazione, la nostra resistenza, la nostra ribellione e la nostra parola di verità che non ha limiti né frontiere. Non è questo il momento di metterci da parte, di disanimarci, di essere stanchi, dobbiamo essere più convinti che mai della nostra lotta, essere fermi nelle nostre parole e continuare con l’esempio che ci hanno dato i compagni e le compagne che sono morti: non arrendersi, non vendersi, non tentennare».

Ventiquattro anni dopo il primo gennaio 1994 le zapatiste e gli zapatisti sembrano citare indirettamente Malcolm X, non tanto con la sua storica «con ogni mezzo necessario», che poi è ciò che fanno da sempre per continuare a costruire una rivoluzione transnazionale, ma soprattutto quando disse «Non mi siederò alla vostra tavola per guardarvi mangiare, davanti a un piatto vuoto e sentirmi chiamare commensale. Sedermi a tavola non fa di me un commensale. Essere in America non fa di me un americano». Se riuscissimo a sostituire “America” e “americano” non con riferimenti a stati nazione ma rendendo universale il concetto, troveremmo una parte di terreno comune su cui costruire il mondo necessario di cui abbiamo bisogno, perché dove viviamo oggi non c’è nulla da riformare. L’immaginazione, il sogno e la dedizione non sono per tutti e tutte, ma per chi agita il suo ingegno e si esibisce da folletto, o si mette un passamontagna, o non accetta che tutto debba essere sempre e solo così.