FILIPPA ILARDO | Forse abbiamo paura che quello spettatore addormentato possa svegliarsi dal torpore estetico e narcotizzante in cui si era rincantucciato: è per questo che la nomina del nuovo direttore del Teatro Stabile di Catania sta suscitando strane perplessità? Abbiamo forse paura che i giovani universitari, o il pubblico esigente, torni al teatro? O forse si teme che il Teatro Stabile di Catania possa lasciarsi dietro le infinite stagioni dei Martoglio (fatti, rifatti, conservati, riletti, sempre in salsa provinciale), le stagioni dei Pirandello con le gag di maniera che non fanno più ridere nessuno, o i Pirandello con i “nomi di richiamo” dagli effetti imbarazzanti che ci hanno fatto arrabbiare. Abbiamo paura che non sia più la stagione dei Pippo Pattavina, dei Tuccio Musumeci, e che magari ci sia qualche apertura al contemporaneo, all’innovazione, ai nuovi linguaggi. Abbiamo paura che si possa puntare sulla nuova drammaturgia, sulla danza, sulle giovani compagnie.

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Abbiamo terrore che la scuola dello Stabile venga riaperta. Abbiamo paura che la stessa scuola non possa più sfornare scritturati disoccupati, o paura che provi a innescare la sperimentazione di percorsi autonomi, di ricerche personali, di necessità artistiche inusitate e coraggiose. Abbiamo paura che niente resti uguale, che la tradizione non sia più tradizione, che l’identità (quale?) possa essere superata, che la storia possa prendere un nuovo corso, che Catania possa essere meno Catania, e che lo Stabile, meno noioso e annoiato, meno Stabile, insomma.

Abbiamo certamente paura che si possa esprimere l’indignazione non sopita per la brutta fine (in termini di proposte artistica si intende) toccata a quello che era un vero tempio del contemporaneo: il Teatro Musco, il ridotto dello Stabile, dove un tempo passavano Brook, Celestini, Enia, la Dante, il primo Pirrotta, e il meglio del “Nuovo Teatro”, si chiamava così la rassegna ideata da Orazio Torrisi (direttore artistico del Teatro dal 2001 al 2007), sala gremita da universitari, una comunità di pensiero che seguiva, si interrogava sulle nuove forme di arte, sulla drammaturgia, sui percorsi autoriali più importanti del tempo. Siamo nell’era ante-Dipasquale (direttore dello Stabile dal 2008 al 2016), uno spartiacque necessario per capire cosa sia successo negli anni successivi.

Ebbene, io al contrario, penso che non abbiamo veramente niente, oramai, da perdere. C’è poco o nulla da salvare.

Ce l’ho con Martoglio? No. Ce l’ho con Pattavina o Musumeci? Me ne guarderei bene. Sono immensi monumenti, hanno scritto pagine bellissime della nostra storia, appartengono alla storia del teatro, forse al presente, non certo al futuro. Ce l’ho semmai con questa idea di teatro passatista che lo intende come linguaggio fermo e cristallizzato, un teatro rassicurante e convenzionale, che non sia capace di ripensare totalmente il teatro stesso, che non ne faccia tremare le fondamenta, mettendo in discussione tutto.  Una strada che già Pirandello aveva cominciato ad indicare, quando diede profondi scossoni alla concezione classica del teatro.

Catania, nella seconda metà dell’Ottocento, era il vero «epicentro del teatro internazionale»[1] (lo dicono Taviani e Meldolesi). Ma cosa faceva grande la Catania di allora? Era un dibattito capace di «ripensare il teatro» e «reinventare la sicilia»[2], un dibattito sul teatro stesso,  «sul ruolo dell’attore, sul teatro dialettale, sul rapporto fra il testo e la messainscena, sui diritti dell’autore, sull’inviolabilità del testo letterario, e sulla libertà interpretativa di quelli che Pirandello avrebbe definito “esecutori”»[3]. Un dibattito che guardava al futuro. Nel mondo, quello stesso dibattito ha prodotto cambiamenti epocali, da quel pensiero il teatro si è rivoluzionato totalmente e definitivamente nelle forme, nelle estetiche, nelle pratiche e nelle riflessioni teoriche. Nulla è rimasto uguale. Ma noi siamo rimasti fermi lì, a quelle forme, a quelle parole, alla comicità senza umorismo, alla commedia senza terremoti, alla messainscena senza interrogativi, alle parole senza vita, alle gag fatte di vuoto, al teatro senza pensiero e senza pensieri. Siamo rimasti fermi.

Quindi il problema non sono Martoglio e Pirandello, quanto piuttosto il fatto di avere dimenticato la loro carica riformatrice, averli fatti diventare maniera, malgrado loro stessi, senza il tentativo di far germogliare qualcosa di altro e guardare oltre. Come appunto facevano, ai loro tempi, Martoglio e Pirandello. Fare i conti con la tradizione, significa avere coraggio di tradirla, se è necessario. Altrimenti il rischio è quello di svilire il valore stesso del teatro come possibilità di trovare forme di rappresentazione che si interrogano, che non siano esaustive, che sappiano stare al passo con il dibattito nazionale e internazionale. Compito di un teatro sarebbe semmai quello di dare spazio, spinta e spirito di iniziativa, a quelli che saranno i nuovi Martoglio e i nuovi Pirandello, investendo sulla formazione, lasciandosi penetrare dal fermento che c’è fuori dallo Stabile, come è avvenuto a Palermo, sotto la direzione di Alajmo. Un fermento autoriale che va coltivato, ma non imbrigliato. Compito dello Stabile non è quello di scritturare talenti, ma animare traiettorie, dare spazio all’autorialità, alla scritture, alle nuove poetiche, ai gruppi e alle compagnie che osano e non è detto che siano catanesi. Da tempo non partono dalla Sicilia proposte importanti che riescano a trovare attenzione a livello nazionale. Forse negli ultimi anni, ultimo a riuscire in questo intento è stato Zappalà con le sue coreografie, e lo è stato anche perchè ha guardato alla sua realtà, vivendola ma con la forza anche di tradirla. Di guardare oltre.

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Serve quindi discontinuità, altro che tradizione, servono tradimenti, altro che identità.

Serve sprovincializzare Catania, correndo il rischio di farle perdere i confini, con buona pace di Verga, Capuana, Pirandello, che poi furono grandi perché nel loro tempo rappresentarono delle avanguardie rivoluzionarie in termini di linguaggi, poetiche, ricerche formali e guardavano all’Europa molto più di quello che vogliamo ricordare. Abbiamo dimenticato la loro lezione più importante, cioè l’innovazione, e li abbiamo imbalsamati senza anima.

La stagione in corso ci ha riservato delle importanti novità, la presenza dei Nèon Teatro, con la loro straordinaria ricerca poetica, la buona produzione del Giuramento di Claudio Fava, e tutto sommato il giudizio sul cartellone non è negativo, lo ha rilevato anche Andrea Porcheddu nel suo recente articolo. Ma la sua è una lettura che pecca di ottimismo, e non solo per non aver visto il Pirandello di Placido, o i nomi televisivi di Scarpati e Solarino in una sceneggiatura cinematografica, il tutto a teatro. Proviamo a centrare il vero problema, quello del pubblico: la società che sonnecchia a latere dello spettacolo, il pubblico che ha visto le stesse cose e che non vuole vedere altro, il pubblico che manco sa che esiste altro, il pubblico scambiato con “cassetta” e adescato con la comicità sbrigativa di certe commedie, o con il nome televisivo. Un pubblico mai provocato, mai destabilizzato, mai turbato, mai formato.

Nel frattempo a Catania, al di là e lontano dallo Stabile, abbiamo assistito a vari movimenti sotterranei, la rassegna del CentroZo, con una programmazione significativa, dove abbiamo visto Turi Zinna, catanese, con la sua inesauribile vena che sperimenta linguaggi, parole, visioni, nuovi modi di stare in scena e di rappresentare. La giovane compagnia catanese, Vucciria Teatro, capace di dare vita ad un’interessante forma drammaturgica, spezzata, moderna, provocatoria, con ottime qualità attoriali, nonostante lo spettacolo si concedesse qua e là ad una narrazione convenzionale con toni da melodramma.

E ancora il Teatro del Canovaccio, dove Francesca Vitale avvicina con successo il pubblico al Contemporaneo, con la sua stagione Palco Off. Vi abbiamo visto un lavoro pieno di forza del duo Eleonora Gusmano e Ania Rizzi Bogdan, capace di scommettere sulla parola, sulla dinamica relazionale, sulla verità dello stare in scena.

Segnaliamo ancora il lavoro della Compagnia Isola Quassùd che instaura un dialogo con l’Africa subsahariana, e l’eccellente spazio destinato alla danza, Scenario pubblico, del coreografo Roberto Zappalà, mentre Nino Romeo, dalle enormi qualità autoriali, appare purtroppo sempre più isolato dal contesto cittadino, ripiegato su allestimenti non all’altezza della sua stessa drammaturgia.

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Il nuovo corso ha bisogno allora di discontinuità, di terremoti, di spinte profonde, radicali, ha bisogno di ripensamenti. Ha bisogno di svegliare il pubblico, quello che sonnecchia, quello che neanche riesce a spegnere il cellulare (vi assicuro che non si riesce ad assistere a uno spettacolo al Verga senza essere disturbati da 4\5 telefonini che squillano), quello che si sente tradito, quello che va a teatro senza troppi perché, quello che ha smesso di andare a teatro, quello che potrebbe andare a teatro, se trovasse una buona motivazione per andarvi…

È veramente prematuro dare giudizi su Laura Sicignano, la donna del Nord chiamata alla guida dello Stabile. Non sappiamo, né pretendiamo di sapere se il nuovo direttore chiamato a dirigere uno dei teatri più indebitati di Italia, sia all’altezza di guardare avanti (ma molto avanti…), cogliendo le esigenze di un pubblico che, di fatto, non esiste più, che bisogna decostruire e ricostruire per non avere più spettatori che si addormentano.

 

[1] Meldolesi C. e Taviani F., Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Bari-Roma, Laterza, 1991, p. 303.

[2] Farrell J, Il vecchio e il giovane: incontri e scontri nel teatro siciliano, in Lingua e lingue nel teatro italiano, a cura di P. Puppa, Roma, Bulzoni Editore, 2007, pag. 288.

[3] Ivi